Storie Abitare al cinema, anno 2020 Testo di Alessandro Ronchi Aggiungi ai preferiti The human voice diretto da Pedro Almodovar In un anno cruciale per ripensare l'abitazione come luogo fisico e soprattutto emotivo, varie discipline artistiche, tra cui il cinema, hanno visto le case prendersi il centro della scena. Può essere una coincidenza oppure una manifestazione dello spirito del tempo, uno dei numerosi casi nei quali l'arte e la cultura sembrano profetizzare gli eventi perché reagiscono a direttrici storiche, a quelle che individueremo come concause, ad attese e paure che sono nell'aria. Fa sorridere rileggere gli articoli del gennaio 2020 in cui si parla della mascherina come "trend fashion dell'anno" dopo che Billie Eilish la indossò alla cerimonia dei Grammy Awards. È significativo come, nell'anno dei lockdown che ha rivoluzionato e radicalizzato il rapporto del soggetto con il domicilio, la casa sia il tema dominante l'anno cinematografico e i film più apprezzati siano attorno all'abitare e allo spazio domestico, benché evidentemente si tratti di film girati prima dell'esplosione della pandemia da Covid-19 e delle sue ricadute. Trionfatore tanto al Festival di Venezia quanto agli Oscar, Nomadland di Chloé Zhao sconta un tono generale tendente al disneyano, ma affronta un tema decisivo della contemporaneità: in che modo il mito fondativo della frontiera, l'idea americanissima del movimento perpetuo viene smitizzato a contatto con la realtà sociale a misura di stanziale e con lo specifico del momento storico in cui la gig economy prescrive la precarietà e la mobilità a vantaggio di pochi, nelle cui mani il capitale si sta concentrando in proporzioni che non si vedevano dalla rivoluzione industriale? Quanto romanticismo è rimasto nell'idea di vivere all'avventura, senza radici, cambiando la casa con un camper e in quale percentuale la realtà rugosa è invece composta di emarginazione, stenti, disillusione? Quanto si tratta di un lusso che solo i ricchi possono permettersi e quanto obbliga gli altri a una perpetua dipendenza per la sopravvivenza? La distribuzione in piena pandemia ha aggiunto un ulteriore strato di senso: quanto, costretti in casa e in preda alternativamente all'orrore del domicilio oppure alla sindrome del nido, quel ritratto demistificato della vita nomade ci risulta attraente nonostante tutto oppure ancora più spaventoso nella sua incertezza e precarietà? Un altro film ugualmente coperto di statuette prende la stessa falsariga: Minari di Lee Isac Chung, ancora uno statunitense di origine asiatica. Stavolta il tema è quello degli immigrati come nuovi pionieri e la casa mobile è vista come avamposto, come base per la colonizzazione di territori. Dall'epico al comico, perché i tempi sono altri, ma l'archetipo è sempre quello della frontiera. Troviamo il terzo accumulatore seriale di premi della stagione spostandoci in Gran Bretagna. Si tratta di The Father, diretto da Florian Zeller a partire da una sua stessa pièce. Dall'altra parte dell'Atlantico i grandi spazi del Great Outdoors si volgono negli spazi claustrofobici e al contempo immensamente proliferativi di un appartamento, metafora della mente in via di sfaldamento di un malato di Alzheimer. L'altra protagonista, a fianco del come sempre gigantesco Anthony Hopkins, è la casa. Si abita un appartamento come si abita la propria mente, si arredano, si personalizza uno spazio dato perché aderisca, risulti funzionali alla propria esistenza – e, a volte, drammaticamente si assiste al loro tracollo. Anche in questo caso, nell'anno in cui è tornato di attualità il Viaggio attorno alla mia camera, scritto da Xavier de Maistre durante una quarantena di oltre due secoli fa, le immagini doppie della claustrofobia e del labirinto evocate dalla sarabanda scenografica di The Father si sono arricchite di risonanze altre rispetto alla malattia degenerativa che rappresentano. The Father diretto da Pedro Almodovar C'è infine una delle prime uscite d'autore girate a pandemia in corso – e quindi con protocolli sanitari e limitazioni infernali che hanno stravolto il modo pratico di fare film, come tutto il resto – che è il cortometraggio The human voice diretto da Pedro Almodovar, facendo interpretare a Tilda Swinton il celebre monologo di Jean Cocteau. L'appartamento come luogo simbolico, i cui caratteri tangibili sono quelli costruiti vivendoci, viene reso con uno stratagemma scoperto, alla Dogville, mostrando la sua natura artificiale di set, i infrangendo la sospensione di incredulità su cui si fonda la malia del cinema canonico. Come se la casa come spazio mentale fosse una delle prime cose di cui c'era urgenza di parlare nella contingenza della pandemia. L'anno in cui l'abitare è stato controverso come mai a memoria d'uomo, è stato, al cinema, un anno di case, molte e diverse.