Storie Ben van Berkel, UNStudio Testo di Marilena Sobacchi Aggiungi ai preferiti ©Inga Powilleit - Courtesy of Alessi L'architetto che vuole migliorare la qualità della vita delle persone, producendo architetture, infrastrutture urbane e oggetti adattivi, resilienti e a prova di futuro Architetto olandese, laureatosi nel 1987 presso l’AA di Londra, Ben van Berkel fonda UNStudio con Caroline Bos nel 1988 che, da subito, si configura come un vero e proprio network di specialisti nel settore dell’architettura, dello sviluppo urbano e delle infrastrutture. Tanti i progetti iconici realizzati, tra cui il museo Mercedes-Benz a Stoccarda, la stazione di Arnhem Centraal nei Paesi Bassi, la Moebius House, la stazione centrale di Arnhem e l’Università di Tecnologia e Design di Singapore. Ma non solo. In trent’anni di attività lo studio ha saputo abbracciare più discipline, dall’architettura all’urbanistica al design, diventando un vero e proprio colosso del progetto. I numeri? Decine di cantieri aperti in tre continenti, quattro sedi internazionali − Amsterdam, Shanghai, Hong Kong, Francoforte − in cui lavorano oltre 200 professionisti super qualificati provenienti da 27 paesi, più di un centinaio fra premi e riconoscimenti. Fil rouge che collega tutti i progetti di UNStudio − e loro punto di partenza − è una ricerca volta a migliorare la qualità della vita delle persone in tutto il mondo: l’obiettivo è produrre architetture, sviluppi e infrastrutture urbane, oggetti e prodotti incentrati sull'utente, che siano adattivi, resilienti e a prova di futuro, qualunque cosa ci possa riservare. La dimensione del progetto che interessa maggiormente Ben van Berkel è strettamente correlata alle relazioni umane, all’interazione fra cittadini e spazio, alla sua fruizione ed esperienza fisica. L’uomo al centro del progetto. Per questo, l’architetto definisce i suoi lavori trasformativi, ossia produzioni in grado di interagire in modo organico con il pubblico. Altra caratteristica imprescindibile dell’attività dello studio è la promozione e la pratica del design sostenibile. Le questioni ambientali e la sostenibilità sociale vengono prese in considerazione sin dall'inizio. La salute del pianeta è l’obiettivo finale: il che significa tenere presente e valorizzare economia circolare, transizione energetica, autoproduzione e riciclo delle acque. Inoltre, il loro è un design che si definisce realizzabile perché praticabile sia finanziariamente sia socialmente. Quale allora il linguaggio comune in cui si esprime questa visione progettuale? Un alfabeto di volumi plastici e sfuggenti, elementi a nastro e superfici dinamiche che abbinano metallo e colore all’inseguimento di tipologie architettoniche adattive per una società in continua trasformazione. Con Ben van Berkel, che recentemente ha ottenuto la cattedra di Kenzo Tange di Visiting Professor presso la Graduate School of Design dell’università di Harvard, abbiamo chiacchierato di città ideali, nuovi modi di abitare lo spazio, resilienza, innovazione tecnologica e progetto quale pratica politica. Ma anche di bambini. Tutto è iniziato su un tavolo da cucina. È lì che, insieme a Caroline Bos, ha realizzato i primi progetti. Ed è così che è nata l’idea dello United Network Studio. Oggi, a 30 anni di distanza, UNStudio opera in quattro diverse sedi internazionali − Amsterdam, Shanghai, Hong Kong e Francoforte − in due continenti e ha progetti in oltre 30 paesi. Qual è stato il progetto più impegnativo e che ha suscitato più emozioni in questi 30 anni? Tutti i progetti presentano nuove sfide, ma alcuni ti possono tenere col fiato sospeso più di altri. Benché faccia parte della professione e ci si abitui col tempo, sapere che il tuo progetto non è stato selezionato in un concorso è particolarmente difficile da accettare. Per rispettare le scadenze inderogabili dei concorsi lavoriamo giorno e notte, quindi è sempre una delusione quando il progetto − che tu speri soddisfi la visione e le esigenze del cliente − non viene scelto. Al contrario, quando vinci ti senti gratificato perché sai che la tua visione corrisponde davvero a quella del cliente. Analogamente, se un progetto viene bloccato − il che può succedere per un’infinità di motivi che vanno al di là del tuo controllo − la delusione naturalmente è enorme. Può davvero suscitare forti emozioni. Si prova, invece, una sensazione fantastica nel vedere come un progetto − su cui si è lavorato dal primo schizzo fino alla supervisione dell’ultimissimo dettaglio − diventi operativo; quando si osserva come funziona e come vi interagiscono le persone reali. È questo l’obiettivo di tutti gli architetti ed è anche la miglior ricompensa per la grande dedizione che tutti hanno per questo lavoro. Ma, davvero, non saprei proprio scegliere dei progetti specifici. Sono tutti così diversi fra loro, tutti con le proprie sfide e emozioni, con alti e bassi. Negli anni ho imparato, però, ad avvicinarmi al lavoro in modo seriale, a rivedere certe qualità nei diversi progetti e capire che cosa hanno in comune, una particolare serie di idee, soluzioni, qualità concettuali e formali e ho cercato di sviluppare queste basi per lavori futuri. Quali sono le colonne portanti del suo studio? La sua filosofia di progettazione e il suo Manifesto? La nostra missione è quella di produrre progetti che mettano al centro le persone, che siano adattivi, resilienti, sani e a prova di futuro, ma crediamo anche molto in un approccio integrale; in soluzioni progettuali che affrontino in modo olistico le sfide della sostenibilità, quelle organizzative, formali, materiali e concettuali. Il nome del nostro studio, UNStudio, significa United Network Studio. Perché noi crediamo fermamente nel lavoro con esperti di altri ambiti e pensiamo che, in quanto architetti e progettisti, rappresentiamo solo uno degli attori coinvolti in una rete più estesa. Recentemente, però, la tecnologia è diventata estremamente importante per l’ambiente edificato, ed è per questo che nel 2018 ho fondato la società arch-tech UNSense con lo scopo di fare la differenza nell’incontro fra la tecnologia e l’ambiente edificato. Ha citato gli edifici resilienti e adattivi. Che cosa intende con questi aggettivi? Come può essere resiliente oggi l’architettura? Essere resiliente vuol dire riuscire a riprendersi rapidamente in seguito a qualunque cambiamento che possa avere effetti negativi. In termini architettonici, questo vuol dire che sin dall’inizio dobbiamo progettare avendo in mente questa probabile tipologia di ripresa. Può voler dire prevedere flessibilità nella pianta di una casa, che permetta dei cambiamenti d’uso in caso di recessione economica, crisi di edilizia residenziale, o magari a causa di un’inversione di tendenza (come l’introduzione di nuovi modi di lavorare o di vivere), ma può anche voler dire progettare un sistema di facciate che possa facilmente essere rinnovato nel futuro per prolungare la vita dell’edificio. Tuttavia, con i tempi che cambiano ad una velocità mai vista prima, anche le previsioni più accurate possono risultare inutili in caso, per esempio, di un improvviso traguardo tecnologico. Per potersi districare fra tutti questi cambiamenti, gli architetti e i progettisti devono disegnare tenendo a mente la flessibilità, perché per essere resiliente, l’architettura deve essere adattiva, se vuole essere in grado di soddisfare i bisogni di una società in continua evoluzione. Che aspetto ha, secondo lei, la città ideale del futuro? La città ideale è una città sana, in tutti i sensi. Non solo favorisce dei sistemi economici sani, ma oltre a ridurre l’impronta ecologica e tutelare la salute del pianeta, garantisce anche la salute fisica, mentale e sociale dei suoi abitanti. L’architettura e il design rappresentano una pratica “politica”? Certamente considero l’architettura e il design come pratica politica, e non semplicemente come prodotto delle influenze politiche. Tutto ciò che conta nel dare forma alla società, che può incidere sul benessere della gente, è intrinsecamente politico. Non lo intendo in senso di attivismo politico, ma più che altro come il design può influenzare e dare forma alla nostra vita quotidiana. C’è anche una grande responsabilità legata a tutto questo. Di cosa si stanno occupando oggigiorno UNSFutures e UNSx? Qual è la loro missione? Inizialmente le nostre Piattaforme del Sapere sono state create per condividere le nostre conoscenze fra colleghi, condividere e scambiarsi idee e conoscenze − sia all’interno dello studio che con collaboratori esterni su progetti di Ricerca e Sviluppo. Ma col passare degli anni si sono formate due unità separate. Una, la UNSFutures, si concentra sull’anticipazione e la progettazione di scenari futuri, trasformando le conoscenze attuali in design tangibili che portino avanti i progetti dall’ideazione fino alla realizzazione. Per fare ciò, l’unità lavora a stretto contatto con dei team interdisciplinari di accademici, tecnologi e leader nel design, oltre che con i designer dello UNStudio. La seconda unità, di più recente creazione, è l’UNSx, che ha il compito di ideare progetti per offrire un’esperienza umana di condivisione. È organizzata come think-tank e laboratorio esperienziale per ideare prodotti, servizi e strategie che vadano oltre i confini del possibile, nel nostro modo di vivere, lavorare e divertirci. Questa unità consiste in un team di architetti, progettisti computazionali, designer di prodotti, esperti di strategia creativa, specialisti di VR/AR e consulenti esperti di sostenibilità. Che tipo di innovazioni pensa si possano realizzare grazie al progresso tecnologico? Non vedo l’ora di migliorare il mondo analogico con le tecnologie digitali. Per gli architetti, i designer e gli urbanisti, la tecnologia può essere utilizzata come strumento per migliorare l’ambiente edificato, per conformarlo alle esigenze effettive degli utenti finali e rendere più salutari, resilienti e sostenibili i nostri edifici e le nostre città. La tecnologia in architettura è principalmente collegata a nuovi modelli di efficienza. Per esempio, abbiamo attualmente la tecnologia dei sensori che ci permette di capire il rendimento degli edifici, il che vuol dire che oggi gli architetti possono progettare con dei dati alla mano. Tali tecnologie possono avvicinare gli architetti agli utenti dei loro edifici, scoprendo di cosa hanno bisogno, cosa apprezzano e che tipo di flessibilità richiedono. Ecco perché abbiamo fondato UNSense, dove sviluppiamo la tecnologia per creare degli spazi più adeguati che abbiano al centro l’uomo. Al contrario, però, dei concetti più comuni della smart city, UNSense va oltre i semplici obiettivi dell’efficienza e della performance, realizzando progetti che esercitino un impatto positivo sull’uomo, la società e l’ambiente. Riteniamo che tali considerazioni dovrebbero guidare sempre lo sviluppo e la realizzazione di soluzioni tecnologiche. La gente afferma che il mondo sarà diverso dopo il COVID-19. Condivide questa opinione? Cambierà per sempre il nostro mondo? E l’architettura? In tutta la storia, le pandemie hanno cambiato le città in diversi modi, come la Morte Nera nel sedicesimo secolo, il colera nel diaciannovesimo e la Spagnola nel ventesimo. Che sia l’introduzione dei sistemi fognari sotterranei, o i regolamenti urbanistici che hanno limitato la densità e l’altezza degli edifici, come quanto è successo a New York, al fine di garantire una buona circolazione dell’aria e la luminosità nelle strade urbane. Tuttavia, riteniamo che la società basata sul ‘metro e mezzo’ di distanza sia una condizione temporanea. In termini di progettazione, non si tratta di favorire questo tipo di società a lungo termine. Dobbiamo stare tutti molto attenti a non avere idee precipitose o giungere a delle conclusioni affrettate. Piuttosto, dobbiamo esaminare attentamente ciò che sono le vere questioni e trovare delle soluzioni valide a lungo termine. Noi di UNStudio riteniamo che questa opportunità ci consenta di rafforzare il nostro approccio integrale su un aspetto su cui lavoriamo intensamente ormai da alcuni anni: rendere più salutare l’ambiente interno ed esterno. Ciò comprende ambiti come la creazione di più spazio dove c’è un’alta densità, o una migliore qualità dell’aria, della ventilazione, dell’acustica e della luminosità negli edifici, al fine di ridurre i permessi per malattia nella vita lavorativa. Un approccio integrale vuol dire che non ci focalizziamo su un solo aspetto, ma cerchiamo delle soluzioni di tipo olistico. Quindi, se guardiamo a ciò che abbiamo imparato da questa pandemia, dobbiamo considerare il quadro complessivo, o una serie di misure per migliorare il modo in cui viviamo e lavoriamo. La pandemia ha chiarito agli architetti che devono concentrarsi ancor più da vicino su possibili modalità in cui il design può aiutare a prevenire le malattie e a mantenere i cittadini in una condizione di salute fisica, mentale e sociale. Sono emersi nuovi parametri e si è posta nuova enfasi su quanto sia importante un approccio che metta le persone al centro del progetto. Il suo portfolio è ricco di progetti su grande scala, di tipo futuristico, responsabili e sostenibili. A settembre Alessi ha lanciato una collezione per bambini firmata da UNStudio, che (secondo noi) è meravigliosa. Come è nato l’incontro con Alessi e cosa ha ispirato l’idea di questa collezione? Abbiamo lavorato sul design di prodotti per Alessi per più di 15 anni e abbiamo disegnato un’ampia gamma di prodotti, dai servizi da tè e caffè ai portabottiglie, alle posate e persino un affettatartufo. Ma la collezione per kids nasce dall’esperienza quotidiana e dal gioco con mio figlio. Mi è sempre piaciuto lo spirito giocoso con cui i bambini percepiscono e esplorano il mondo intorno a loro; come la qualità dell’immaginazione che hanno permette loro di pensare al di là dei limiti della razionalità e come il fatto di essere liberi dalla logica dà origine a idee e percezioni fra le più creative e meravigliosamente irrazionali. Questo spesso è accompagnato da una grande curiosità, via via che cercano di capire dove finisce la loro immaginazione e dove inizia il ‘mondo degli adulti’. Mio figlio, che ha ormai 4 anni, ha raggiunto questo stadio; vuole sapere se Superman riesce davvero a volare. Se noi riusciamo a sollevare una casa. Se possiamo andare in Sud America oggi stesso. Cercare di afferrare questo tipo di mentalità stimola la tua stessa creatività in qualità di designer e devi tenerla sempre a mente quando sviluppi progetti per i bambini. Insomma, vuoi arricchire l’immaginazione e stimolare il gioco e la curiosità, per creare una sorta di esperienza di apprendimento. È un’esperienza molto interessante. Quando disegni un prodotto per adulti, ti concentri sulla funzionalità e su come abbinarla alla materialità, all’estetica e alle qualità spaziali. Ma succede qualcos’altro quando si progetta per i bambini: cominciano a emergere idee diverse, più giocose, perché inizi ad avvicinarti al design con la mente di un bambino. Come si relazionano i bambini agli oggetti, alle forme, alla consistenza e ai colori? Come stimolerà l’immaginazione del bambino questo prodotto? O come migliorare il design per favorire il gioco, l’apprendimento e la creatività? Ti trovi di fronte a tutta una serie di nuove possibilità, ma alla fin fine, dipende molto dal prodotto in sé e dall’uso che se ne vuol fare. Si ha quindi un focus diverso su ognuno di essi e si cerca di affinare proprio quello. ©Christian Richters VilLA NM - ©Christian Richters Southbank, Melbourne - Rendering Norm Li Raffles City Hangzhou - ©Hufton+Crow Hardt Hyperloop Hub - ©Plompmozes Hardt Doha Metro Network - ©Hufton+Crow UNStudio Tower Lobby, Amsterdam - ©Eva Bloem Silu Chair - ©Jose Luis Lopez de Zubiria, Courtesy of Ondarreta SitTable, design by Ben van Berkel - UNStudio ©Prooff Doraff, design UNStudio - Courtesy of Alessi ©150UP 2 novembre 2020 Share