In conversazione con Andrea Tognon e Studiopepe

Amelie Maison d’Art, Synaesthesia

Studiopepe, Amelie Maison d’Art, Synaesthesia, photo courtesy

Sul progetto, il suo senso e le sue basi. Sul decoro, sul rigore e sulla felicità. Su sostenibilità e futuro. Visioni a confronto con Arianna Lelli Mami, Chiara Di Pinto e Andrea Tognon

In un tardo pomeriggio di un inverno milanese, fatto di nebbia e umidità, solco il portone di un palazzo degli anni Trenta, uno di quelli che indovineresti disegnati da Gio Ponti o Portaluppi. Non so cosa aspettarmi, dentro. Di solito non mi creo attese sugli spazi né su chi incontro e su cosa potrebbero raccontarmi. Amo farmi sorprendere. Così, in un appartamento che trasuda storia e memoria, ma indiscutibilmente contemporaneo come le anime che lo vivono, Arianna Leli Mami – la proprietaria –, Chiara Di Pinto e Andrea Tognon ci riescono perfettamente. A sorprendermi, intendo. Con una tazza di tè verde, seduti sul tappeto dello studio, tutti e quattro scalzi, in una conversazione che a tratti si fa intima, imparo a conoscerli fin dalle prime battute. Da una parte, ecco un approccio ascetico, funzionale, che prende in considerazione e rimane fisso sull’oggetto, sul suo peso, sulla sua gravità e sul significato di quell’oggetto in un dato spazio – Andrea. Dall’altra, un’azione che crea identità, storie capaci di relazionarsi con il luogo e con l’umano, oggetti che riportano all’archetipo e che aspirano a diventare archeologia del futuro. E ancora. Un architetto che fa della struttura musicale del rock, semplice e precisa, il suo approccio alla professione. Due designer che partono, per progettare, dalle suggestioni e dalle emozioni e che parlano, anche, dell’antica saggezza egizia – Arianna – e di verità celesti, astrologiche – Chiara. Il risultato? Un’interessante disamina sul significato e sul valore del progetto, che tocca tutte le tematiche più attuali, dal punto di partenza alla committenza fino al concetto di sostenibilità.

Un’idea, uno spazio, un materiale, un colore: da dove si comincia un progetto?

Chiara: Noi partiamo proprio dal significato del verbo progettare, ossia guardare oltre. Cerchiamo di immaginare a cosa serve questo progetto, chi lo vivrà, quali sono le sensazioni che dovrebbe trasmettere alle persone che lo fruiranno. Queste informazioni di base vengono, poi, tradotte in maniera estetica attraverso i materiali, le forme, l’idea che ci coglie.

Quasi una visione, commenta Arianna che, appassionata di antico Egitto, azzarda un paragone con le visioni che avevano le antiche regine egiziane, attraverso le quali comunicavano con il cosmo e gli dèi.

Andrea: Io parto dallo spazio. O meglio, la mia prima operazione è “sentire il momento, l’istante”. Capire esattamente dove siamo, cosa c’è intorno a noi, quale percorso parte da quel particolare foglio bianco. Poi, se si tratta di architettura o interior, parto dallo spazio, da cosa in effetti c’è. Se, invece, si parla di un oggetto o di un arredo, parto dalla gravità, dal senso di come una cosa si incastra nell’altra, sta sull’altra.

La progettazione dovrebbe mettere gli spazi in relazione ai reali bisogni delle persone. Avere una funzione. Ma funzionalizzare lo spazio ha anche a che fare con la relazione emozionale che si instaura tra voi e il committente e tra le case e i loro abitanti. Come risolvete l’equazione nei vostri lavori?

Andrea: Per me è fondamentale relazionarmi con l’altro, con il cliente che è l’altra parte del progetto. Da una parte, provo sempre una sorta di fascinazione che cerco di incorporare in ogni lavoro e, dall’altra, mantengo un’azione di guida, di racconto che è basilare per chi, come me, si occupa spesso dell’aspetto identitario dello spazio, che è legato ai codici del cliente.

Arianna: La tematica della committenza è sempre molto sentita da noi progettisti. Trovare il cliente “giusto” riesce a innescare un rapporto di seduzione, quasi uno “scambio amoroso”. Certo, c’è bisogno di una figura disposta ad aprirsi e lasciarsi affascinare per fare, insieme a noi, “scintille”. Non è sempre così, o è così solo in parte, ma sicuramente sono momenti molto belli e preziosi per chi fa il nostro lavoro.

Chiara: Parlando, poi, di oggetti, quando ci approcciamo a qualsiasi progetto, ogni elemento che disegniamo non è mai isolato, solitario, fa parte di un mondo ben preciso in cui vivrà. Per questo, ci immaginiamo sempre una relazione fra l’arredo o il complemento e lo spazio che andrà a occupare e la persona con cui interagirà. Appena pensiamo a un arredo, gli diamo subito un nome, questo vuol dire che gli conferiamo un’identità, un carattere, una storia da cui scaturirà la sua relazione con il proprietario. È essenziali, quindi, immaginare e lavorare sulla relazione casa-abitante.

Arianna: Alla fine, quello che il cliente fa è un atto di fede. Dato che sarà sempre impossibile spiegare o comprendere totalmente un progetto, la committenza deve riuscire a colmare quel tassello affidandosi al progettista, buttando il cuore oltre l’ostacolo. E noi lo dobbiamo aiutare.

Andrea: È interessante che si parli di atto di fede e di creazione di un oggetto attraverso l’attribuzione di un nome. Io, al contrario, ho una specie di rigore interiore, per cui non uso mai il termine “creare” ma solo “costruire”, “disegnare”, “progettare”. A me non interessa molto la storia, il racconto. Riporto tutto all’oggetto, alla sua funzione, alla sua gravità, che è l’unica forza universale che condiziona sia l’oggetto sia chi lo usa. E, mentre la ricerca va spesso sul tema della leggerezza, mi confronto con la pesantezza, ossia il peso, che riflette sull’idea di persistenza – che peraltro penso sia la più grande forma di sostenibilità. Ma questa è un’altra storia.

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Out of The Blue, Studiopepe x Numeroventi, ph. Silvia Rivoltella

Qual è, oggi, per voi il senso dell’architettura e del design?

Andrea: La provvisorietà. Il senso che possiamo dare oggi non è quello che attribuivamo due anni fa e neppure quello che potrei assegnare tra una settimana. Ciò che mi colpisce è l’attuale svuotamento, la perdita di senso. Cosa che non è, di per sé, un male. Se l’architettura è sempre stata potere e politica, una frattura da questa accezione potrebbe essere una via interessante. Sto pensando al metaverso, al digitale, alla tecnologia. L’immagine che ho avuto ascoltando la domanda è quella della Roma abbandonata, distrutta: architetture pazzesche in rovina o sepolte fra le sterpi. E se, da una parte, vedo questa proiezione spericolata verso l’immateriale che ha anche in sé una componente imprenditoriale e visionaria, dall’altra sento forte la pressione di temi quali l’ecologia e la sostenibilità, e mi sembra che la frattura rispetto al passato si stia facendo più chiara. 

Arianna: In architettura è molto più semplice trovare un senso. Oggi, attraverso e grazie a essa, abbiamo la possibilità di spingere al cambiamento, di spronare le persone a un cambio di passo verso una maggiore sostenibilità, per esempio. Penso all’architettura delle città, dei grandi spazi, all’urbanistica. Il design, e qui concordo con Andrea, produce, oggi, un senso più parcellizzato. Quello che vorrei è che i nostri progetti possano riconnetterci alla natura, nel senso che mi piacerebbe che il nostro design ritornasse al primitivo, all’essenziale, all’archetipico. Sicuramente un compito non semplice.

Intensità e rigore. I vostri progetti sembrano ridurre all’osso il decoro, quello, per intenderci, fatto di drappi, boiserie, parquet, intarsi, tappeti, lampadari sontuosi, a favore di un arredamento più essenziale. È solo un’impressione o davvero c’è una frattura fra il decor e il vostro approccio al design?

Chiara: Decoro è sempre stato un termine controverso. In realtà indica semplicemente come uno percepisce un qualsiasi dettaglio. Per me decoro potrebbe essere la venatura di un legno, la texture di un dato materiale. Inteso, invece, come qualcosa che si aggiunge al progetto, allora no, non ci appartiene. Però, davvero, forse è necessario sdoganare un po’ questa parola, perché tutto è decorativo se ci si pensa.

Andrea: Prima parlavamo dell’identità di uno spazio: se tu accetti di ragionare sull’identità di uno spazio, accetti di andare fino in fondo a quello spazio, a quel progetto, a quella committenza. Dovunque ti portino. Anche al decor. Tuttavia, non uso il termine “decoro” ma parlo di “progetto”. E, per me, l’oggetto è fondamentale nella sua posizione, anzi è quasi più importante la sua posizione nello spazio che l’oggetto in sé. Questa è la realtà di quello che faccio. E possiamo chiamarla in tanti modi, anche decoro, non è questo che mi disturba, non è questo il tema. Per me è fondamentale il perché un oggetto, un arredo sia esattamente dove si trova. 

Un esempio?

Vi racconto un aneddoto: ho sempre cercato di realizzare progetti legati a ciò che sono, alla mia identità profonda. E ho capito perché ho un determinato approccio al progetto. Tutto ha inizio da un “imprinting” musicale, a dischi che ascoltavo all’età di tre, quattro anni, che so che hanno formato il mio modo di pensare e approcciarmi al progetto. La caratteristica di uno di quei pezzi è la persistenza, la semplicità della struttura di base della musica rock. È su quella semplicità che ho costruito tutto quello che faccio. Ma all’interno di quella semplicità c’è qualcos’altro: se c’è una base forte, poi ci può essere un assolo, come nel secondo pezzo che ascoltavo. Ma quando finisce quell’assolo? Quando è necessario smettere? Quando non c’è più niente da dire, da aggiungere. Dove finire è fondamentale e può essere legato a qualcosa che si sovrappone e che, nel design, potremmo chiamare decoro. Questa è una delle lezioni più forti sul design che io abbia mai avuto in tutta la mia vita. E lì sta la chiave di come sono fatto e progetto. 

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Andrea Tognon, ph. Winter Vandenbrink

Arriviamo all’argomento sulla bocca di tutti: la sostenibilità. Cos’è per voi e qual è il vostro sforzo in tal senso?

Arianna: Forse progettare di meno.

Chiara: Selezionare i progetti in base agli oggetti che vorremmo che facciano parte del nostro quotidiano il più a lungo possibile.

Andrea: Siamo allineati: sostenibilità è persistenza.

Qual è il ruolo del design e dell’architettura nella costruzione della felicità? È possibile progettarla?

Andrea: Assolutamente no. Mi viene in mente il film 8 ½ di Fellini, in cui il protagonista va dal cardinale e dice “io non sono felice” e il cardinale gli risponde che il tema non è la felicità. La felicità non si progetta e non è mai stata una mia aspirazione. Per me è un momento, un barlume. Certo è che l’architettura o il design possono suscitare emozioni forti.

Arianna: Per me è un’illusione pensare che la felicità venga da qualcosa che è al di fuori di noi. Ovvio che abitare un ambiente confortevole, luminoso, “bello” contribuisce al benessere. 

Chiara: Concordo su tutto. Per farti stare bene il progetto deve far risuonare una tua voce interiore. È come scegliere un amico. Spazi e oggetti hanno una grandissima forza espressiva, è chiaro che ognuno sceglie cosa è più adatto a sé, cosa gli dà serenità. Ecco, parlare di felicità è troppo, ma si può progettare per far sentire bene le persone.

I vostri piani per il futuro prevedono anche il Salone del Mobile.Milano?

Arianna: Sicuramente. Stiamo lavorando per una galleria con pezzi che ci immaginiamo destinati a durare un po’ come fossero archeologia per il futuro. Sono oggetti che ragionano sul concetto di antropologia, che richiamo oggetti che servivano per sottolineare qualcosa o elevare un significato, vedi il trono, l’altare… Questa collezione sarà presentata durante la Design Week. Siamo, poi, su tanti altri progetti per tutti i nostri clienti, le aziende che parteciperanno al Salone, che vi sveleremo a giugno.

Andrea: Sì, certo. Ho ricevuto un invito da un’azienda che non si occupa di design ma che mi ha offerto la possibilità di lavorare su uno spazio per portarci dentro un po’ del mio mondo che possa parlare al mondo di questo brand proprio in occasione del Salone del Mobile.

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Studiopepe, ph. Silvia Rivoltella

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Andrea Tognon, ph. Cerruti Draime

Studiopepe, Amelie Maison d’Art, Synaesthesia

Studiopepe, Amelie Maison d’Art, Synaesthesia, photo courtesy

Studiopepe, Amelie Maison d’Art, Synaesthesia

Studiopepe, Amelie Maison d’Art, Synaesthesia, photo courtesy

Studiopepe, Amelie Maison d’Art, Synaesthesia

Studiopepe, Amelie Maison d’Art, Synaesthesia, photo courtesy

Andrea Tognon

Andrea Tognon, ph. Winter Vandenbrink

Andrea Tognon

Andrea Tognon, ph. Suisicong

Andrea Tognon

Andrea Tognon, ph. Suisicong

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15 febbraio 2022