Cosa significa essere curatore nel mondo del design?
Attraverso il loro punto di vista, Martina Muzi, Angela Rui e Federica Sala raccontano come cambia il lavoro curatoriale nel mondo del progetto
Quello della curatela è un lavoro molto spesso incompreso, perché multiforme e adattivo. È anche un lavoro in trasformazione perché il significato stesso del ruolo del design sta cambiando rapidamente. Curare una mostra di design non significa solo mostrare dei prodotti finiti ma raccontare una storia, affrontare una questione e le sue necessità, esplorare la nostra cultura materiale. Per questo abbiamo chiesto a tre curatrici italiane – Martina Muzi, Angela Rui e Federica Sala – di raccontarci il loro lavoro, spiegarci il loro approccio e parlarci di un loro progetto recente.
Federica Sala
Il ruolo del curatore è simile a quello di un direttore d’orchestra o del regista. Sono tanti i tipi di mostre che si possono fare: mostre storiche, di ricerca (in Italia dovremmo lavorarci di più), commerciali o sperimentali, per rivelare gli aspetti politici del design. Inoltre, di uno stesso soggetto o tema si possono fare mille mostre diverse, dipende dal lato che ritieni importante evidenziare.
Il ruolo del curatore o della curatrice indipendente è diverso da quello di chi ha un ruolo istituzionale: devi avere la capacità di cambiare registro e non essere identificato come una sola cosa. Quando mi approccio a un progetto mi interessa valorizzare l’onestà e la qualità di un lavoro, la sincerità e le passioni di un designer. Uno degli aspetti che amo maggiormente è il dover scoprire e imparare cose che non conosco, studiare temi che magari non mi corrispondono o che sono diversi dal mio punto di vista personale. Arriviamo quindi al tema dell’ascolto: bisogna capire profondamente il lavoro di un autore e mai far prevaricare la propria personalità sulla sua.
Un risvolto fondamentale del mio lavoro di curatrice è la relazione personale che si crea con gli autori. Ad esempio, sono molto contenta del mio ultimo lavoro con il designer polacco Marcin Rusak. La mostra “Unnatural Practice”, presentata durante la Milano Design Week 2021, ha origini lontane. L’idea di lavorare insieme infatti è partita nel 2016. Avevo visto una sua esposizione a Basilea nel 2016, ci siamo scritti via mail, ci siamo conosciuti meglio, ma non siamo riusciti a trovare un modo per collaborare. La mostra di settembre è stata un’esperienza bellissima per tutti quelli che ci hanno lavorato e importante lavorativamente per me e penso anche per lui.
Angela Rui
Per me curare il design non significa solo esporre dei prodotti ma anche capire come la cultura materiale e gli oggetti che ci circondano cambiano il nostro modo di guardare il mondo. Se dovessi dire che cosa caratterizza il mio lavoro è un po' l'idea di provocare delle parallassi, cioè uno spostamento del punto di vista, osservare un fenomeno guardandolo lateralmente. Nel mio lavoro non credo ci sia una regola fissa. Mi piace dire sempre questa cosa: si parte dal concetto (concept), da un tema o delle questioni a cui ha senso lavorare, poi però c'è il contesto (context), che cambia un po' i giochi e ti richiede un dialogo situato, per arrivare poi al contenuto finale (content), che raccoglie la pluralità di voci che insieme orchestrano la diffusione di un certo pensiero.
A me piace studiare, la mia è anche un'ossessione privata. Non riesco a pensare a un concept veloce, a fare una call, a raccogliere una serie di lavori per poi immediatamente passare alla produzione. Ho bisogno di una conversazione con gli autori, ho bisogno di conoscere in profondità gli argomenti di cui stiamo trattando, ho bisogno di spostare un po' il punto di vista dei designer o degli artisti invitati e raccogliere tutto sotto una visione che riesce a evidenziare un punto di vista che prima non era così visibile.
La mia ultima mostra al MAAT di Lisbona è intitolata “Aquaria – Or the Illusion of a Boxed Sea”. Ho scelto gli acquari perché facendo una ricerca ad ampio raggio, anche di tipo storico, mi sembrava interessante indagare la cultura del “mare addomesticato”, di come è entrato nelle nostre case, domestiche e culturali, e quindi nell’immaginario collettivo. Questa nasce in epoca vittoriana, quando in Inghilterra scoppia la cosiddetta Aquarium Craze. Gli acquari erano considerati degli oggetti di intrattenimento, e introducono per la prima volta in casa l’immagine in movimento: la Natura diventa Cultura. Per semplificare: l’acquario domestico rappresenta la prima televisione e l’acquario pubblico, il cinema.
Martina Muzi
Io considero le mostre come dei progetti sperimentali, seguendo anche la mia formazione che è quella di una designer più o meno classica. Di questi progetti ci sono diversi aspetti da curare: lo spazio, i contenuti, il design grafico, video e suoni, il set up sono tutte cose che concorrono alla produzione di significato. Uno degli obiettivi fondamentali di una mostra è quello della costruzione di uno spazio di possibilità per i designer e gli artisti: un luogo dove poter fare ricerca e poi presentarla al pubblico. A me piace parlare di politiche della curatela perché il curatore ha il compito di creare un ambiente in cui le idee prendono forma e vengono condivide. È importante rispettare e valorizzare le diversità di approcci e tempi di produzione, e tradurre il tutto in un processo che è unico. La narrativa di una mostra forse non è la cosa più importante ma arriva come momento secondario. Questo può essere un po’ una scommessa, un rischio, ma è decisamente più interessante. È come se lavorassi a una sorta di collage più che a una narrativa perfetta. Non mi interessa dare una soluzione ma creare delle composizioni di idee che possono esistere in prossimità nonostante siano diverse, sia nei media sia nel significato.
Sto lavorando a una serie di mostre con il network degli alumni della Design Academy Eindhoven. L’ultima si intitola “Geo-Design: Budget Airlines”, e prova a raccontare quello che è un fenomeno culturale, un modello economico e operativo che si è imposto degli ultimi anni: il turismo low-cost. Il progetto espositivo ha un approccio molto aperto e come il giornalismo, il film making, l’antropologia, il fictional writing ecc. possono essere mescolati insieme per la produzione di una mostra. Attraverso questo tema si sono indagati aspetti molto diversi come il marketing, l’inquinamento ambientale e sonoro, l’appropriazione culturale, questioni contrattuali, logistiche e infrastrutturali: questi non sono di per sé argomenti centrali ma che concorrono ad approntare il tema con complessità. Sono argomenti che servono alla disciplina del design per sopravvivere.