Storie (di questi tempi) leggere, e soprattutto rileggere: “La dimensione nascosta” Testo di Marco Romanelli Aggiungi ai preferiti “The Hidden Dimension” esce nel 1966. Il tema, delicatissimo, quello della cosiddetta “distanza sociale”, purtroppo tornato di grande attualità a causa delle recenti pandemie, dopo decenni in cui non era scomparso, ma covava sotto traccia. “The Hidden Dimension” esce, anzi meglio “deflagra”, nel 1966. L’edizione italiana, rapidamente pubblicata da Bompiani (1968), porta la prefazione di Umberto Eco e un sottotitolo che recita: “Vicino e lontano: il significato delle distanze tra le persone”. L’autore, l’americano Edward T. Hall, era un professore di antropologia. Nell’affrontare la prossemica (scienza che aiuta a capire le relazioni interpersonali relativamente allo spazio) applica dunque una rigorosa metodologia, ma il linguaggio che sceglie è divulgativo: nel volume si parla di lontananza e vicinanza durante l’atto sessuale, in una riunione di lavoro, durante un pasto condiviso. Ciò che è troppo vicino per un americano, sarà probabilmente troppo lontano per un arabo. Tema delicatissimo questo della cosiddetta “distanza sociale”, purtroppo tornato di grande attualità a causa delle recenti pandemie, dopo decenni in cui non era scomparso, ma covava sotto traccia. “La dimensione nascosta” racconta, vorrei dire svela, la nostra quotidianità che, come ben sappiamo, cela atti non sempre corretti o altruistici: insomma il nostro corpo “parla” anche quando noi stiamo zitti. Meglio imparare ad ascoltarlo! Meglio per tutti: architetti alle prese con un cliente, medici nei confronti di un paziente, barboni che chiedono l’elemosina o capi di stato in visita ufficiale. Certo, decifrato il linguaggio non verbale utilizzato dal “diverso” di turno, Edward T. Hall pare suggerire una soluzione drastica: il “diverso” (lui, per forza lui) dovrà adattarsi al modello “vincente” (ottimismo pragmatista americano). I 45 anni che sono trascorsi dalla pubblicazione del libro ci hanno insegnato, a volte in modo cruento, che non è affatto vero che la vicenda finisca sempre così. Riconoscere le differenze non è sufficiente (e rischia di apparire moralistico, se non addirittura razzista): è necessario cercare di comprenderle nel profondo, e di accettarle. Reciprocamente. Ma sintetizziamo alcuni dei casi pratici raccontati da Hall: Percezione acustica: “I Giapponesi mentre usano una serie di schermi visivi, si accontentano di schermi acustici che sono pareti di carta”. Percezione olfattiva: “Nell’uso dell’apparato olfattivo gli Americani sono sotto-sviluppati… L’uso diffuso di deodoranti e l’eliminazione di tutti gli odori… hanno fatto del… paese una landa di piattezza e uniformità olfattiva”. Respiro: “Nei paesi arabi è una pratica comune spruzzare di saliva l’interlocutore. Gli Americani, invece, imparano fin da piccoli a non respirare in faccia alla gente”. Percezione dello spazio: “Nell’uso dello spazio interno, i Giapponesi lasciano spogli i lati delle stanze, collocando tutti i mobili al centro; mentre gli Europei tendono a disporre l’arredamento lungo le pareti”. Percezione tattile: “I Giapponesi, come è chiaramente testimoniato dagli oggetti che producono, sono molto più coscienti della ricchezza di senso della texture e della superficie degli oggetti”. Percezione visiva: “Gli occhi sono comunemente considerati i principali strumenti di ricezione delle informazioni. Ma, per quanto sia importante la loro funzione ‘ricevente’, non si dovrebbe dimenticare l’utilità della loro funzione ‘trasmittente’: lo sguardo può, per esempio, punire, incoraggiare…”. Distanze: Hall le classifica in quattro categorie: distanza intima, personale, sociale e pubblica. “Nella distanza intima la presenza dell’altro è evidente… La vista…, l’olfatto, il calore del corpo, …l’odore. Questa è la distanza dell’amplesso, e della lotta, del conforto e della protezione…”. Distanza personale (da cm 75 a cm 120): “la si potrebbe pensare come una… bolla trasparente che un organismo mantiene tra sé e gli altri… ‘Tenere qualcuno a distanza’… è un modo di indicare… un limite in cui due persone possono toccarsi le dita, allungando il braccio”. Distanza sociale (da cm 120 a cm 360): “a questa distanza si trattano gli affari impersonali”. Distanza pubblica (da cm 750 in avanti): “sta a indicare una forma residuale… di reazione di fuga… è la distanza che si stabilisce automaticamente attorno a importanti personaggi pubblici”. La valutazione di tali “distanze” (e delle invitabili conseguenze) era stata, dai tempi della pubblicazione del volume fino a questo 2020, sottovalutata. Oggi non è più possibile. Oggi necessariamente dobbiamo considerare ciascun essere umano come circondato da una serie di sfere trasparenti compenetrate le une nelle altre. Riuscire a visualizzarle mentalmente ci permetterà di imparare a rispettare gli altrui diversi livelli di privacy. E questo non riguarda più, come avveniva nel 1966, i rapporti tra abitanti di nazioni o regioni diverse (aspetto che oggi ci fa un po’ sorridere, come nelle celebri di barzellette che inevitabilmente cominciano con “Ci sono un Inglese, un Francese, un Cinese….”), ma piuttosto il vicino con cui ci “scontriamo” sul pianerottolo, il guidatore di taxi che, ohimè, si è permesso di starnutire, il collega di cui si sospettano frequentazioni promiscue. Dobbiamo essere capaci insomma, quotidianamente, di trasformare la “distanza” in uno strumento di rispetto. Appresa la distanza potremo poi tornare a praticare “la vicinanza”. 29 luglio 2020 Share