Storie Faccia a faccia con lo Studio Mayice Testo di Ana Dominguez Aggiungi ai preferiti Con il suo approccio fresco alla progettazione di pezzi che potenzialmente hanno alle spalle una lunga tradizione, lo studio Mayice (Marta Alonso Yebra & Imanol Calderón Elósegui) è sempre pronto ad innovare e al tempo stesso tiene conto di quelle caratteristiche che ci legano alla nostra storia, e quindi alle nostre emozioni. I loro oggetti, delicati e potenti, hanno un fascino caratteristico e un carattere poetico che li rende intensamente presenti. Avete una formazione da architetti. Mi interesserebbe capire quando e perché è nato il vostro interesse per il design, e in che modo il fatto che avete studiato da architetti influenza il vostro lavoro come designer… Entrambi siamo in realtà sempre stati attratti dal design, dall’arte e dalla bellezza, sin da giovani. Marta avrebbe voluto fare l’Accademia, e Imanol voleva studiare design. Cominciammo a progettare e produrre i nostri primi pezzi d’arredamento attorno al 2014. Eravamo insoddisfatti del lavoro in un mondo dell’architettura pieno di regole ma che offriva molto poche opportunità di creatività e innovazione, in un periodo di grande crisi in cui mancavano l’ispirazione e la visione di un lavoro di qualità in grado di durare nel tempo. Per questo abbiamo sentito la necessità di lavorare sui materiali e di considerare i processi come una forma di espressione. Presto, con i primi prototipi, ci siamo resi conto che il settore mancava di flessibilità, bisognava sempre produrre in gran quantità e i prototipi li si poteva fare soltanto con le proprie mani o far realizzare a maestri artigiani. Prima di passare all’azione, ci piace concederci il tempo per riflettere, pensare, progettare prototipi finché non arriviamo alla miglior soluzione possibile. Pensiamo che l’architetto debba lavorare allo stesso modo del designer. La differenza principale è la scala. Gli architetti imparano principalmente a considerare e risolvere i problemi su scale diverse—si va dall’urbanistica alla progettazione di una stanza o alla risoluzione dei problemi posti da una struttura complessa. Questo modo di pensare facilita il passaggio a una scala più piccola, dove i dettagli acquisiscono un valore maggiore e diventano cruciali. Nel design il dettaglio è tutto. Vi piace sottolineare che lavorate con concetti astratti. Potete spiegare cosa intendete? A volte traiamo ispirazione per la costruzione di una forma o per l’uso dei materiali da un concetto legato ad una storia. Di solito non prendiamo semplicemente la matita e ci mettiamo a progettare una forma, piuttosto cerchiamo idee che ci ispirino. Ad esempio dietro al design di Filamento l’idea era di creare una linea di luce dentro al vetro, in un modo che fosse immateriale. Un altro esempio è BUIT per Gandía Blasco, volevamo che fosse quasi come un tappeto, che si ripiega e forma uno spazio: un divano, una poltrona. La rete di alluminio si intreccia col tessuto, un’idea che ricorda la fabbricazione dei tappeti ed è un’espressione, un gesto che rappresenta la storia del marchio. Prima di progettare solitamente dedichiamo parecchio tempo ad approfondire la storia del marchio o le idee astratte dietro ai nostri progetti. Questo ci aiuta a sviluppare un’idea. Il vostro lavoro è particolarmente interessante perché combina un uso virtuoso e una buona conoscenza della tecnologia con la passione per l’artigianalità. Come tenete in equilibrio questi due aspetti del vostro lavoro? L’artigianalità ci permette di improvvisare, di sviluppare velocemente delle idee e abbinarle a soluzioni estetiche e formali, concentrandoci sui materiali, ma sempre con un tocco di imperfezione umana, che le riempie di bellezza. Ma la tecnologia è in grado di realizzare finiture e processi molto difficili da ottenere a livello artigianale. Combinare i due mondi è sempre molto difficile, ma spesso si intrecciano e potenziano a vicenda. Diciamo che la tecnologia dovrebbe sempre adattarsi alla dimensione artigianale. Bisognerebbe sempre tenere a mente la possibilità di tolleranze e variazioni, in modo che tecnologia e artigianato possano collaborare. Prendiamo ad esempio la collezione di lampade RFC: qui l’elemento in alluminio doveva essere adatto per tutti i pezzi in vetro soffiato, ma gli spessori del vetro sono sempre variabili. In questo caso quindi era fondamentale la capacità dell’artigiano di adattarsi alla misura. Altro esempio: senza la tecnologia LED e senza lenti non avremmo potuto dare vita a Filamento. Per questo siamo convinti che l’artigianalità possa umanizzare il design, perché mostra la mano dell’artigiano con le sue virtù e i suoi difetti, mentre la tecnologia ci permette di potenziare il lavoro dell’uomo. Il progetto che vi ha conquistato una fama come designer è stato Rfc+, realizzato alla vecchia fabbrica di vetro di La Granja. Qui avete tenuto conto della storia dello stabilimento e la avete trasfusa nei pezzi finiti. Potete raccontarmi qualcosa in più di questa idea e di questo processo di progettazione? Fu il nostro primo incarico come designer. Decidemmo di usare la collezione di stampi della fabbrica, composta di più di 4000 unità, e dunque non fu necessario creare forme nuove. Guardando più attentamente, trovammo forme più piccole, sotto ai 30 cm di diametro, per la produzione di lampade Argand a olio, brocche, tazze, ecc. Poi cominciammo a combinarle e tagliarle dopo la soffiatura, la tempra e il raffreddamento, cercando composizioni e forme che non assomigliassero al loro uso originale. Se Murano sottolinea più il colore, il vetro della Real Fabrica invece si caratterizza per la sua trasparenza. Lavorando con il vetro e la trasparenza, la cosa più importante è la fonte luminosa. Comprammo sul mercato 25 diverse lampadine, ma nessuna andava bene, guastavano l’effetto del vetro e si vedeva solo la luce. Poi ci venne in mente di provare alcuni faretti che avevamo utilizzato per una mostra che avevamo realizzato a Villa Necchi Campliglio, e questi si rivelarono la soluzione giusta. Fissammo lo spot dentro al pezzo e vedemmo che il materiale sembrava retroilluminato, la fonte luminosa non era visibile e la trasparenza del vetro prendeva il sopravvento. Significava che per la struttura della lampada dovevamo progettare una fonte luminosa unica. Questa idea ha cambiato il nostro modo di vedere il vetro e la luce. C’era anche un senso come di magia, perché la fonte luminosa, attraversando le forme del vetro, creava cerchi concentrici sul pavimento, come se ne stessimo proiettando l’anima. Andavamo alla fabbrica di vetro quasi ogni giorno per lavorare assieme agli artigiani, che ci hanno insegnato come si lavora e a innamorarci del materiale. Quali sono le qualità che vi hanno affascinati? È un materiale magico. Il processo diventa ipnotico nel momento stesso in cui si comincia a lavorare con il fuoco. La tecnica si è evoluta a malapena dalle sue origini, ha resistito nel tempo. Il materiale da liquido diventa solido, durante la lavorazione cambia colore e subisce diverse trasformazioni che ne fanno un materiale raffinato e delicato. E misterioso. Sembra che non ci siano prove o dati certi riguardo al momento storico della sua scoperta. Una leggenda narra che dei Fenici in viaggio nel deserto della Siria con del nitrato nel loro carico abbiano fatto un fuoco usando blocchi di nitrato per appoggiare le pentole, e le alte temperature abbiano fuso la silice mischiandola con la sabbia, trasformandole in vetro. È un materiale che richiede tempo per essere imparato e compreso. Fare un disegno non basta, perché la tecnica influisce sul design. E questo ci piace. Apprendiamo sempre dal materiale e dagli artigiani che lo lavorano, e questo ci aiuta a osare di più nel processo creativo. Non è un caso che più avanti nella vostra carriera abbiate fatto con il vetro altri due progetti importanti: FILAMENTO e, di recente, “NO TITLE”. In entrambi i casi avete trattato il materiale in maniera del tutto inaspettata e con un alto livello di innovazione tecnologica. Potreste spiegarmi le peculiarità di questi due progetti e se il secondo rappresenta un’evoluzione del primo? Il progetto Filamento è scaturito dall’osservazione del modo in cui la luce attraversa il vetro. Lavorando per la Real Fabrica, avevamo notato un effetto sorprendente di cui non sapevamo spiegarci l’origine. Dopo molti esperimenti scoprimmo che le forme concave e convesse assieme a una particolare fonte di luce producono un riflesso luminoso e creano un effetto ottico, un filamento di luce. Cominciammo esaminando una sfera, in cui la luce si perde nel centro, o in tubo circolare, dove non si produce alcun effetto. Per creare il progetto abbiamo imbrigliato tutte queste bizzarrie della luce. In questo caso la forma del vetro non ha una valenza estetica, ma è funzionale alla produzione di un preciso effetto di luce. Senza la forma l’effetto non si produce. Per No Title, volevamo vedere fluttuare nell’aria un tubo luminoso, che facesse apparire diversi riflessi a seconda della percezione dell’osservatore. Il pezzo è nato dal dialogo con Rossana Orlandi, che ci ha sempre suggerito la sfida di produrre un pezzo in vetro totalmente trasparente, senza alluminio. Volevamo portare all’estremo la trasparenza del materiale. Qui la difficoltà stava nello sviluppo della tecnica, perché l’involucro della lampada è un pezzo unico di vetro, con piccole increspature che riflettono il riflesso del tubo di vetro interno, generando onde di luce. Sia Filamento che No Title lavorano sul riflesso e sulla rifrazione. Giocare con la luce e le ombre, con la percezione dell’oggetto a seconda del punto di vista dell’osservatore sembra essere fondamentale per voi... Certo, è importante, ma è un effetto che emerge contro-intuitivamente dal lavoro. Accade sul percorso dell’innovazione, dell’apprendimento per tentativi, alla ricerca della bellezza. A entrambi sono sempre piaciuti molto l’arte che si percepisce diversamente a seconda del punto di vista dell’osservatore, o i pezzi di design che creano un’atmosfera e modificano lo spazio, trasformandosi a seconda della posizione dell’osservatore, mettendo in scena un dialogo tra questo e lo spazio. Forse tutto ciò sta solo nella nostra testa, l’osservazione, l’apprendimento per tentativi da cui alla fine nascono progetti come Filamento o No Title, che parlano proprio di questo: della percezione, dei riflessi, della rifrazione, della luce e del vetro, del dialogo tra spazio e osservatore. Abbiamo sempre avuto una predilezione per quelle opere che implicano un dialogo con lo spettatore, che lo coinvolgono e fanno riflettere sul modo in cui sono state prodotte. Quanto di ciò che imparate in questi progetti autonomi resta presente anche nei progetti su commissione per aziende che producono su scala più grande, come ad esempio nella collezione che avete creato per LZF, lo specialista di illuminazione spagnolo? Tutto quanto impariamo nei nostri progetti autonomi e nel loro processo produttivo alla fine trova applicazione nel lavoro che facciamo in collaborazione con grandi aziende, e vice versa. LZF è stata la prima che è riuscita a produrre una collezione. Ma allo stesso tempo, combinare il legno, un materiale vivo, con il vetro, è stata una grande sfida. Grazie all’expertise di LZF e dei suoi collaboratori siamo riusciti a risolvere i problemi derivanti dall’idea di combinare un pannello di legno interno con un pannello di vetro esterno e una fonte di luce. Insistete a descrivere il vostro lavoro come “minimalista”. Io però non sono sicura che questa definizione sia calzante. Potreste dirmi perché usate questo termine come chiave di interpretazione per i vostri progetti? Le forme dei nostri oggetti in effetti non sono affatto minimaliste, sono forme organiche, complesse. Ma forse ci sembra minimalista il modo di lavorare, il fatto che per ogni progetto impieghiamo solo pochissimi materiali, che ricerchiamo la massima semplicità e pulizia possibile nei passaggi e negli snodi. Anche BUIT, il sistema di sedute per interni per Gandía Blasco, è un progetto per un’azienda che produce su scala industriale. Materiale e approccio sono completamente differenti, ma anche qui l’idea e l’uso dei materiali sono innovativi. È stata una sfida per voi? Il progetto BUIT è stata una grandissima sfida. Che abbiamo affrontato con l’aiuto di Gandía Blasco: Alejandra, Jose, Sergio, Marcos, Álvaro... che hanno messo a disposizione il loro aiuto e la loro pazienza per quanto riguarda l’innovazione, assieme a Febrik Kvadrat, che ha dato un contributo importantissimo al progetto per il materiale tessile contenuto nella rete d’alluminio. Si tratta di un progetto che ha caratteristiche ancora spiccatamente artigianali. Lavorare con l’alluminio si è rivelato difficile, ed è stato possibile grazie all’ingegnere Paco Navarro, con la sua dedizione e la sua pazienza. Abbiamo portato al limite estremo lo spessore della rete di alluminio, per reggere il peso delle persone, eppure è così leggera. Il processo di fabbricazione è complesso, richiede grande attenzione e un maestro artigiano capace di lavorare l’alluminio per saldare insieme tutte le parti. Anche il lavoro con il materiale tessile è stato complesso. Si trattava di un tessuto tubolare di altissima qualità di Kvadrat, riempito di una speciale schiuma a essicazione rapida. Saldare questi due materiali non è stato semplice, e siamo stati affiancati dal team di R&S di Kvadrat, che ci ha aiutati a intrecciare e unire il tessuto e l’alluminio senza necessità di usare altri materiali, bottoni o graffe... Ci sono voluti più di due anni e il coinvolgimento di molte persone, per non parlare dei problemi con il rifornimento di materiale durante la pandemia di COVID-19, eppure il progetto è molto forte e ha una grande personalità. Ho sentito che state lavorando a un progetto che coinvolge il ricamo... Quali sono i vostri progetti più attuali? Per il brand HSIU stiamo collaborando da ormai più di due anni con il Museo del ricamo di Suzhou. È un nuovo progetto di innovazione e sperimentazione che coinvolge il ricamo in seta. Non siamo ancora riusciti ad andare in Cina, e questo è stato il nostro primo progetto a così grande distanza. Non vediamo l’ora di poterlo svelare. Abbiamo già disegnato due collezioni, una delle quali basata sul ricamo in seta piatto. Sarà un pezzo artistico fluttuante nell’aria, con lo stesso ricamo su entrambi i lati e le trasparenze dello “juàn”, il tessuto in seta su cui si sviluppa il ricamo. A questo pezzo il maestro Zheng Ruying Ms Zhang ha lavorato sei mesi, applicando tecniche millenarie. Per noi questo lavoro parla di natura e umanità, ma anche del tempo. In esso, ogni punto a mano e il tempo della lavorazione del maestro sono impressi con grande amore e abilità. L’altra collezione per il Museo del ricamo in seta e HSIU è più difficile e sperimentale, prevede la creazione di un vestito usando del vetro e facendolo fluttuare nello spazio. Come vede, quella dei design fluttuanti e incentrati sulla delicatezza per noi sembra quasi un’ossessione. Forse ce l’abbiamo in testa per qualche motivo. Stiamo lavorando anche a una struttura in vetro per il design fantastico di Moritz Waldemeyer, Candle Light. Quest’anno ha prodotto un’elaborazione tecnologica molto avanzata della fiamma di candela animata. Abbiamo lavorato anche da remoto, e il pezzo di cristallo è molto semplice, in vetro tagliato a mano della Real Fabrica, una raffinatezza che crea un’aureola circolare che si abbina agli effetti della magnifica candela elettronica, così che possiamo tenere in mano una fiammella. È stato un piacere lavorare con Moritz e Nazani. E per concludere, stiamo lavorando sul progetto di illuminazione per il Café Barbieri, nel centro storico di Madrid, un caffè dell’inizio del ventesimo secolo tutelato dalla sovrintendenza, non possiamo cambiare nulla. Quindi il nostro lavoro si concentra sulla luce, sull’illuminazione dello spazio per mezzo di luci e colori che facciano risaltare la bellezza di questo luogo così carico di storia. 21 ottobre 2021 Share Vedi ancheAltri articoli Manifestazioni The Euroluce International Lighting Forum Sostenibilità I principi dell’architettura biofilica Salvatore Peluso Manifestazioni Highsnobiety e Salone del Mobile.Milano celebrano i Maestri del design Manifestazioni Quanto è importante il SaloneSatellite per un giovane designer? Alessandro Mitola