Storie Ferruccio Laviani Testo di Maria Cristina Didero Aggiungi ai preferiti Se da piccolo sognava di fare l’egittologo, oggi è art director, designer e curatore di talento. I suoi prodotti sono tra i progetti più riusciti nelle collezioni di Kartell, Foscarini, Dada–Molteni, Moroso, Lema, Poltrona Frau, Laufen, Londonart, Citco, Driade (solo per citare alcuni). “Quando progetto sono sempre abbastanza istintivo. Un luogo, un viaggio, un oggetto che mi affascina possono farmi vedere le cose da un altro punto di vista.” Questa frase mi sembra già esplicativa della poetica creativa dell’architetto e designer Ferruccio Laviani, nato a Cremona, classe 1960. Dopo anni di professione, la cosa che più lo affascina del suo lavoro – e che ancora lo emoziona! - è immaginare un oggetto e riuscire poi a realizzarlo in maniera tangibile. Con un talento per diverse tipologie di prodotto (da mobili da salotto fino ai sistemi di illuminazione) e un parterre di clienti invidiabile, costruito su rispetto e fiducia reciproca (tra cui Kartell con cui inizia la collaborazione in qualità di art director nel 1991 o Molteni per cui ha creato cucine iconiche), Laviani riesce a immaginare percorsi inediti per le sue creazioni, mentre lo scarto dalla piccola alla grande scala non lo spaventa affatto. L’abbiamo incontrato per ascoltare la sua voce. Qualche aneddoto sulla tua carriera? In realtà non nasce, è capitata per caso. Ogni tanto credo di sembrare un disco rotto quando racconto di essermi iscritto alla scuola di Liuteria di Cremona ma senza successo. Ho avuto la fortuna di non perdere gli studi spostandomi nella sezione per il disegno di mobili dello stesso istituto, riuscendo così a portare a termine la maturità. Anche architettura è stata una scelta non voluta visto che nei miei sogni avrei voluto essere un egittologo, ma in famiglia si decise in altro modo… così sono finito al Politecnico di Milano. Dimmi della “scoperta del design”, come la chiami tu. La “scoperta” del design ricalca in qualche modo le esperienze precedenti; terminati rapidamente gli esami di architettura, in attesa di discutere la mia tesi di laurea, un amico mi parlò di una scuola privata di design e io, infatuato dai fumi di Memphis e Alchimia e il Postmoderno che stava avanzando oltre all’incontro con personaggi tra i quali Alessandro Mendini, Jannis Kounellis, invitati al corso di Composizione di Corrado Levi, decisi di iscrivermi. Mio padre mi disse chiaramente che era l’ultimo investimento che intendeva fare su di me, ma credo di aver ripagato negli anni il suo sforzo. Visto che ero sveglio e me la cavavo bene con disegno e progetto, mi notò Bruno Scagliola, professore e ex-collaboratore di Ettore Sottsass in Olivetti; decise di presentarmi a Michele de Lucchi che aveva appena aperto il suo studio e da lì cominciò tutto. Avevo 23 anni ed era il 1984. Dopo la scoperta hai anche una tua definizione del tuo approccio al design? Assolutamente randomico, come del resto sono anche in ambito personale; sono attratto da tutto e da niente, trovo ispirazione da tutto e niente. Non ho una procedura fissa nell’affrontare un progetto, le idee arrivano da tutte le parti e, se proprio devo trovare qualcosa di specifico, diciamo che solitamente sono incuriosito più da un lavoro grafico che di design ma rimane comunque una cosa molto epidermica a cui non so dare un senso razionale o filosofico. Diciamo che certamente è un approccio più istintivo che ragionato, più di pancia che di testa. Criterio imprescindibile per affrontare una nuova avventura professionale? Deve essere innanzitutto interessante. Deve essere un progetto che mi faccia usare la testa e non uno di quelli in cui la mia creatività è richiesta come se fosse uno stampino, tanto per firmare la collezione. Non mi interessa se l’azienda è grande o piccola, famosa o meno, per me è importante che ci sia la voglia di creare qualcosa di nuovo, di uscire dagli schemi e di sperimentare. E voglio essere del tutto sincero: ci deve essere un buon rapporto economico, ovviamente in proporzione alle possibilità della data azienda, non per un mio atteggiamento “esoso” ma perché lo trovo corretto e rispettoso nei confronti del mio lavoro e dei miei collaboratori. A proposito di rispetto, chi guardi con rispetto dei tanti grandi? Ah, servirebbe un’enciclopedia per menzionarli tutti, tutti importanti allo stesso modo per un motivo o per l’altro. Credo che un progetto non sia necessariamente e solo un prodotto finito, ma è anche il modo di essere di qualcuno, rispecchia una visione, trasmette un’attitudine. Ma voglio citarne alcuni quali Castiglioni, Sottsass, Mendini, Magistretti, Colombo, Ponti, De Lucchi, Branzi, gli Eames, Loewy , Royere, Mattegot, Chareau, Frank, Zanine, Niemeyer, ma anche Citterio, Dordoni, Urquiola, Morrison, Boroullec, Dixon, Ilse Crawford e altri. Ma ora dovrei anche aggiungere Milton Glaser, Calder, Hockney, Bacon, Matt Mullican, Van Der Rhoe, Nouvelle, Le Corbusier, Shigeru Ban, Sana. E poi Joni Mitchell, Pharrel, Prince, Stereolab, Hitchcock, Di Caprio, Pentagram, i Clash, Ridley Scott, Bijork, Chaka Khan, Irving Penn, Sophie Calle, Isaac Asimov, Jean Paul Goude, Martin Parr, Iris Van Herpen, Antonio Lopez, Halston. Credo che la lista completa ne annoveri almeno un centinaio! Mi piace questo mix di nomi, o meglio di cognomi, e il loro diverso background professionale. Tornando a noi e ai tuoi progetti, a cosa stai lavorando in questo periodo? Sto lavorando a un grosso progetto architettonico, di interior di 3000mq nel centro di Bologna, una ristrutturazione affacciata sul Castello Sforzesco a Milano, ho appena terminato il nuovo catalogo per Kartell per la quale ci sono molti prodotti in fase di definizione, in particolare una lampada da tavolo innovativa per concetto e materiali. Poi una nuova lampada a sospensione per Foscarini, una collezione di mobili che non vedo l’ora di poter comunicare essendo anche l’azienda appena nata, qualche proposta di stand per il Salone del Mobile di settembre e il Cersaie, un re-shape della bottiglia di Hennesy Paradis Cognac (che ho disegnato nel 2009), uno showroom di moda, negozi in giro per il mondo, proposte di vetrine; insomma, diciamo che di fogli sul tavolo ce ne sono parecchi! Tanti fogli sul tavolo e quali, invece, i sogni nel cassetto? L’unico sogno (oltre a quello di una vacanza in Grecia appena sarà possibile) è scrivere un libro sulla mia famiglia poiché vorrei fissare su carta una serie di eventi, persone e coincidenze che mi hanno in qualche modo plasmato e fatto diventare quello che sono oggi. Lo vorrei fare per me stesso, oltre al fatto che sarebbe un viaggio unico, in qualche modo straordinario. 24 agosto 2021 Share