Storie Formafantasma Testo di Marilena Sobacchi Aggiungi ai preferiti Photo by Delfino Sisto Legnani Per Andrea Trimarchi e Simone Farresin, il compito del design è produrre riflessioni e immaginare strade alternative. Il materiale, con il suo portato culturale, sociale e politico, ne è il lessico principale Andrea Trimarchi e Simone Farresin si incontrano tra i banchi dell’Istituto di Design Isia di Firenze, a metà strada dalle rispettive terre d’origine − Veneto e Sicilia − e decidono di proseguire insieme gli studi al di là dei confini italiani, nella “mitica” Eindhoven. Dopo il diploma alla Design Academy, si stabiliscono definitivamente in Olanda, fondando il proprio studio con l’intento di guardare e fare design seguendo più il loro istinto che le consuetudini commerciali, sperimentando, scommettendo sulla ricerca concettuale e affrontando il progetto come un processo di scoperta e di conoscenza che, passo dopo passo, conduce fino all’essenza stessa di un prodotto. Formafantasma è sembrato un appellativo corretto per una pratica che si fa ponte tra artigianato e industria, manufatto e fruitore, che mette al primo posto la materia e non l’oggetto, il processo anziché la forma. È il materiale – con tutto il suo portato culturale, sociale e politico – il lessico principale del loro design. Dal pane al carbone, dalla pelle dei pesci al legno, dalle spugne di mare alla lava. Da qui, parte il processo creativo che è dialogo e analisi, che s’innesta su un puzzle di immagini, suggestioni e sensazioni portando al prodotto nuovo che, dunque, appare solo alla fine di questo lungo viaggio, così come la “forma fantasma”. E la produzione? Spesso ne viene immaginata una alternativa, non seriale, non industriale. Si riflette sul recupero di antiche lavorazioni, su tradizione e cultura locale, su tematiche come l’obsolescenza programmata. Si parte dal presupposto che compito del design, oggi, non è tanto disegnare nuovi prodotti quanto produrre riflessioni e immaginare strade “altre”, alternative. Insomma, uno Studio che abbatte il preconcetto, il precostituito. Un elogio del percorso emotivo, del dialogo, del processo. Che piace moltissimo. A tutti. Anche all’industria. Il loro portfolio è, infatti, a dir poco stellare. Hanno lavorato, tra gli altri, per Fendi, Max Mara - Sportmax, Hermès, Droog, tappeto Nodus, J&L Lobmeyr, Gallery Giustini / Stagetti Roma, Gallery Libby Sellers, Established and Sons, Lexus, Krizia International e Flos. Partecipano alla Dutch Design Week, al Salone del Mobile di Milano, all’Abu Dhabi Art, all’Icff di New York, al Design Miami/Basel. I loro oggetti sono esposti al MoMA e Metropolitan Museum di New York, al Victoria and Albert Museum a Londra, al Chicago Art Institute, al Centre Georges Pompidou di Parigi, al Textiel Museum a Tilburg, al Stedelijk Museum di Amsterdam, al MUDAC di Lausanne, al MAK Museum a Vienna, alla Fondation Cartier a Paris, al Centraal Museum di Utrecht, a Les Arts Décoratifs e al CNAP a Parigi. www.formafantasma.com Per iniziare: perché “Formafantasma”? È già un manifesto programmatico? In un certo senso. Quando abbiamo scelto questo nome lo abbiamo fatto in modo intuitivo e prima che aprissimo in modo ufficiale il nostro studio. Nel tempo, però, è diventato sempre più coerente con la nostra idea di design che preferisce il processo e la ricerca contestuale a quella formale. In tal senso, la forma è conseguenza di un processo. Cambia. Non è facile, oggi, nel campo della progettazione, fare ricerca e critica, sperimentare nuovi materiali, lavorare su concetti, immaginare strade “altre” rispetto a quelle che il mondo della produzione in serie propone. E, generalmente, si tende a identificare il design con la forma. È evidente come non sia il caso del vostro lavoro. Qual è allora lo scopo del vostro design e a chi vi rivolgete? Sempre più il lavoro all’interno dello studio sta prendendo due direzioni diverse. La prima, esclusivamente dedicata alla ricerca, con una attitudine più radicale; la seconda, più commerciale. Naturalmente, un approccio può influenzare l’altro. È ovvio che per sostenere uno studio sia necessario scendere a compromessi. Lo scopo del nostro lavoro è in ogni caso capire come la disciplina del design si possa evolvere al di là delle dinamiche e del pensiero moderno che ci ha condotto all’autodistruzione ecologica. La vostra ricerca Ore Stream, improntata sulla questione dello smaltimento dei rifiuti elettronici, si può definire design ricostituente? Sì, certo. Con Ore streams ci siamo focalizzati sull’industria del riciclaggio degli scarti elettronici. Come sappiamo riciclare è una soluzione a breve termine. Non richiede, infatti, un ripensamento del sistema economico ma una sua evoluzione. La riduzione di spreco è, infatti, uno dei parametri principali per garantire la proliferazione economica. Come designer, in ogni caso, è importante operare anche a questo livello. La necessità è quella di avere sempre più una moltitudine di interventi, più che una soluzione unica che, in realtà, non esiste. Si può operare pertanto su una scala temporale a breve, medio e lungo termine. Quest’ultima richiede idee visionarie accanto a ciò che è apparentemente realizzabile. Solitamente non parlate di sostenibilità ma di approccio ecologico: è un radicale cambio di prospettiva. È scalabile o utopia? L’idea di scalabilità ricorda nuovamente i parametri dettati da una economia espansiva basata sulla crescita dei consumi. Se pensiamo sia utopia significa che come esseri umani abbiamo scarse capacità di immaginazione collettiva e che accettiamo l’estinzione della nostra specie. Probabilmente la più grande utopia è quella di una costante espansione economica basata sulla crescita dei consumi. Le risorse sono quantificabili e limitate. I bisogni e desideri umani infiniti. Forse quella capitalista e, per estensione, quella del libero mercato sono le utopie più grandi mai realizzate. Il vostro rapporto con la materia. Investigativo e allo stesso tempo intuitivo. Il vostro lavoro sembra essere un elogio del percorso emotivo, del dialogo, del processo in sé, più che un’affermazione del prodotto finale che, inevitabilmente, diventa poesia. È difficile essere poeti oggi? Quando lavoriamo non c’è poi così tanta emotività, al contrario c’è tanta intuizione. Non sappiamo nemmeno se quello che facciamo sia poesia. Che ruolo ha il divertimento nei vostri progetti? Non ne ha. Amiamo quello che facciamo ma ci divertiamo quando usciamo con gli amici, beviamo, guardiamo un film. Il nostro è lavoro e in quanto tale richiede responsabilità, riflessione, lavoro appunto. Il divertimento ha una componente frivola (che fa parte della vita) che secondo noi non si concilia con l’idea di lavoro che può piuttosto relazionarsi con la passione e l’amore. Botanica - Photo Luisa Zanzani Botanica - Photo Luisa Zanzani Botanica - Photo Luisa Zanzani Ore Stream, Cubicle 1 - Photo Ikon Ore Stream, Cubicle 2 - Photo Ikon Ore Stream, Cubicle 2 - Photo Ikon Mostra Foundation - Photo ©Masiar Pasquali Mostra Foundation - Photo ©Masiar Pasquali Mostra Foundation - Photo ©Masiar Pasquali Wireline - Photo Credit: Officine Mimesi - Courtesy Flos - Formafantasma 23 settembre 2019 Tags Formafantasma Share