Guglielmo Poletti: “Per istinto indago l’essenza degli oggetti”
Una chiacchierata con il designer milanese, di formazione olandese, che ama investigare il materiale e le sue potenzialità. Ma senza rinunciare ad una ricerca di equilibrio formale.
Classe 1987, Gugliemo Poletti, si è formato alla Design Academy di Eindhoven, dove ha affinato la sua visione di progetto. I suoi pezzi spaziano dalla serie limitata all’industria, cercando di mantenere una coerenza progettuale. Al centro c’è l’idea del pensare per mezzo del fare, guidata sempre dall’intuizione per poi sperimentare nuove modalità di approccio al design.
Il mio vero inizio è stato quando ho frequentato il workshop di Domaine de Boisbouchet in Francia con Ron Gilard, una figura chiave nella mia carriera. Lì abbiamo svolto un esercizio in giro per il parco con l’intento di creare tre connessioni profonde tra coppie di oggetti attraverso un gesto: la prima doveva essere a distanza di circa tre metri, la seconda a distanza di dieci centimetri e la terza a contatto tra loro. Ed è proprio in quell’occasione che è nato il primo oggetto affine al mio modo di ragionare, svincolato dall’uso quotidiano. Un’esercitazione che mi ha permesso di capire che c’era molto altro dietro la creazione di un oggetto.
Dopo questa esperienza ho deciso di iniziare il master alla Design Academy Eindhoven. Sono stati due anni importanti perché ho potuto sperimentare molto. Si tratta di un contesto unico attraverso il quale sono riuscito a definire i criteri che ancora oggi fanno da bussola nel mio lavoro. E in occasione del Graduation Show ho incontrato Rossana Orlandi, che ha creduto molto in me. A lei devo infatti l’inizio della mia carriera. Mi ha dato la possibilità di andare avanti con il mio lavoro e di realizzare progetti svincolati da tutti i compromessi. Così, è nata la serie Equilibrum, un set composto da tavolo, lampada e seduta, dove ho investigato i limiti del materiale.
Si tratta di un interesse innato. È qualcosa di profondo, connesso all’intuizione. Si può tradurre nel principio della sottrazione che ritroviamo anche nell’arte contemporanea, nell’architettura e nella moda. Credo che questa scelta, se fatta con coscienza, non è mai fine a sé stessa. Per istinto sono portato a indagare l’essenza di un oggetto, legata all’idea di un archetipo al quale viene sottratto qualche cosa per sfidarlo. Ma sempre da un punto di vista costruttivo. Sono molto interessato al gesto strutturale attraverso il quale un oggetto ha senso di esistere. E questo significa togliere tutto quello che posso per far emergere con chiarezza l’anima del progetto.
Non parto mai da un disegno o uno schizzo su un foglio. Mi piace sperimentare sul campo ed è con le mani che nasce sempre qualcosa, anche se alla base c’è una ragione costruttiva. Tutti i miei progetti prendono vita da un pensiero inconscio, da una coincidenza. C’è un profondo connubio tra intuizione e lavoro manuale, che deve combinarsi al pensiero analitico per generare quel gesto simbolico attorno al quale tutto il resto viene implementato. Se non riesco ad ottenere un oggetto in questa maniera ho poca fiducia che possa essere un buon progetto.
C’è stata sempre coerenza nel mio percorso e Desalto non ha fatto eccezione. Gordon Guillaumier, direttore artistico dell’azienda, ha visto i miei pezzi da Rossana Orlandi e in seguito ha avuto l’idea di realizzare una capsule collection per raccontare il dna di Desalto. Inizialmente si trattava di un lavoro svincolato dall’industria per indagare i limiti del metallo, avendo un know how decennale. Così, ho presentato progetti liberi, non c’era un brief preciso. Quando Gordon ha visto i miei pezzi, ha subito pensato di industrializzarli ed è nata la collezione Void, ma senza snaturare il mio lavoro. Desalto è stata la realtà più giusta per me perché mi ha permesso di lavorare in azienda. Mi sono sempre presentato con modelli fisici. Lavoro molto in scala, non per rappresentazione ma per struttura. Questo permette di instaurare un dialogo e uno scambio. L’altro pezzo che ho realizzato con Desalto è il tavolo MM8, che avevo realizzato per un cliente privato a Milano. Loro hanno compreso il potenziale di questo oggetto e hanno deciso di metterlo in produzione, apportando delle modifiche strutturali per rispondere a specifiche esigenze produttive. Abbiamo quindi inspessito il top mentre le gambe in alluminio sono state sostituite con gambe in legno verniciato. Per me è stata un’occasione stimolante per misurarmi con i vincoli dell’industria e vedere come possono convivere due mondi diversi.
Maarten Van Severen è tra i designer verso cui nutro più stima. La sua sedia .03, prodotta per Vitra, ha avuto una storia analoga alla mia. Ha impiegato tre anni per sviluppare la seduta in alluminio nel suo laboratorio a Gand. E poi con Vitra si è passati alla produzione in serie. È possibile che se lavori con determinazione e passione in maniera autonoma l’interlocutore arrivi dopo. Questo approccio indipendente è molto affine al mio modo di lavorare. L’edizione limitata quindi rimane fondamentale per me. È un modo per sfidarmi. Degli architetti invece ammiro l’attitudine. Sono colpito da chi riesce a non avere vincoli facendo architettura in grande scala. Un esempio è Peter Zumthor, il re di un’attitudine senza compromessi. Quando c’è una visione dietro, è molto commovente vedere il livello di intenzionalità e di cura che si mette nel seguire i dettagli.
Sono riuscito a finalizzare il mio studio in via Clitumno, vicino via Padova. È uno spazio che ho comprato tre anni fa ed è situato in una zona multietnica e riservata, che mi permette di concentrarmi sul lavoro. È stata una ristrutturazione completa, durata circa due anni, dove ho imparato elementi di architettura sul campo. Si tratta del mio primo progetto di microscala architettonica. L’intento era costruire una scatola nella scatola, una sorta di piattaforma. Strutturalmente si presenta come una cabin che rievoca le microarchitetture ed è stata anche pensata per essere autoportante. Una vera sfida che sintetizza la mia visione dello spazio.
Creare una scatola a cielo aperto su una collina. L’equivalente della 6x6 Demountable House di Jean Prouvé. Ho anche un grande interesse per la seduta. In generale oggetti molto archetipici ma anche molto architettonici come tavoli e console. Credo inoltre che se vuoi lasciare un segno devi approcciare ogni progetto con timore reverenziale e profondo rispetto.