Manifestazioni Guidato dalla ricerca della semplicità: John Pawson racconta la sua storia Testo di Salvatore Peluso Aggiungi ai preferiti John Pawson - Ph. Gilbert Mc Carragher Intervista con l’architetto britannico, che il 18 aprile (ore 11) dialogherà con il critico e curatore Dejan Sudjic nell’arena “Drafting Futures” progettata da Formafantasma Al Salone del Mobile.Milano 2024, sarà protagonista di una lunga conversazione con l’autore, curatore e critico Deyan Sudjic, che è anche, anzi, soprattutto, un amico di lunga data: l’architetto inglese John Pawson è uno dei pochi architetti contemporanei che riesce a captare l’essenza dei luoghi. La lunga carriera di oltre 40 anni gli è valsa il titolo di maestro del minimalismo moderno. Lo abbiamo incontrato in anteprima per parlare della sua visione, delle sue passioni e del rapporto con Milano e il Salone. Qual è il tuo rapporto con la definizione di “minimalista” che ti viene spesso attribuita? Cosa significa il minimalismo per te? L’istinto di categorizzare è molto naturale. Mi accontento di essere etichettato come minimalista, anche se penso che sia una parola spesso fraintesa e usata male. Sono sempre stato guidato dalla ricerca della semplicità, la ricerca di ciò che ho definito il minimo, ovvero la qualità che ha un oggetto o uno spazio quando non è più possibile migliorarlo per sottrazione. Ho sempre trovato riscontro negli spazi silenziosi, dove l’occhio è libero di viaggiare senza interruzioni. Quali sono le degenerazioni del minimalismo che non ti piacciono? Penso che quando il minimalismo diventa uno stile piuttosto che un insieme di principi spaziali fondamentali, tende a diventare, ironicamente, stranamente fantasioso. L’autentica semplicità è molto difficile da raggiungere, non si tratta solo di dipingere le pareti di bianco e avere una sedia o un beccuccio da cucina firmati. Trovo molto più sensato e meno superficiale usare una nuvola di parole per definire un autore. Ho trovato molto appropriata una domanda su Azure Magazine, che cito come segue. “Quando descrivi il tuo lavoro, usi parole e frasi come ‘piacere, permanenza, chiarezza, semplicità, pulito, puro, silenziosamente monumentale, impreciso, senza tempo, senza ornamenti e architettura fatta quasi di nulla’. E durante questa conversazione, hai usato parole come “atmosfera, protetto, caldo e accogliente”. In quale altro modo definiresti il tuo lavoro e che tipo di architettura cerchi di realizzare? Per me le esperienze più profonde di agio e benessere nascono dalla semplicità e dalla chiarezza. Non ho mai visto alcuna contraddizione tra il minimalismo architettonico e la creazione di luoghi caldi e invitanti. Trovo profondo conforto e piacere negli spazi in cui tutto ruota intorno alla qualità della luce, alle proporzioni e alle superfici. Per me il minimalismo non è un’estetica astratta, si tratta piuttosto di creare un ambiente fisico e un’atmosfera che mi permettano di vivere come voglio vivere. Un’altra definizione che mi ha incuriosito è quella sul tuo “stile monastico”. Possiamo dire che i vostri vari progetti di chiese e monasteri sono quelli che più rispecchiano un atteggiamento austero? Non ho mai pensato a me stesso come a un uomo austero. Cosa c’è di più sensuale di una bella distesa di pietra o legno, senza nulla che distragga dall’esperienza della luce, dell’ombra, del colore, della consistenza, del motivo e della superficie? Non mi interessa produrre l’equivalente architettonico di un cilicio. I monaci, il clero e le congregazioni con cui ho lavorato negli ultimi due decenni si sono rivolti a me perché hanno riconosciuto la ricca potenzialità dello spazio creato quando si riduce un ambiente fisico all’essenziale. Per loro, ovviamente, questa libertà spaziale costituisce la possibilità di concentrarsi su Dio, sulle cose dello spirito. Ognuno di questi progetti è stato un enorme privilegio per me, non da ultimo per il modo in cui tutti mi hanno permesso di lavorare con la luce e la forma pura a scale mai immaginate prima. Tradizionalmente descrivevi il tuo portfolio come “tutto, dal cucchiaio al monastero”. Il tuo approccio al progetto rimane lo stesso? Ho sempre detto che per me è tutta architettura. Tutto ciò che progetto deriva da un insieme coerente di preoccupazioni per la massa, il volume, la superficie, la proporzione, la giunzione, la geometria, la ripetizione, la luce e il rituale. Spectrum, il libro apparso nel 2017, pubblicato da Phaidon, è una magnifica esplorazione del colore e della luce attraverso la fotografia. E poi c’è il tuo seguitissimo account Instagram, che è un diario di viaggio quasi quotidiano. Cosa ti interessa della fotografia e che utilità ha nella tua pratica di architetto? Penso alla mia macchina fotografica come a uno strumento di progettazione. Uso il mio obiettivo come altre persone usano un album da disegno. L’architettura è, per sua natura, molto lenta. I progetti possono richiedere molti anni per essere completati. La fotografia, al contrario, è quasi istantanea e la uso sempre, per registrare le mie osservazioni e le mie idee. Instagram mi offre un modo per condividere questo diario visivo con un pubblico più ampio. Mi piace la disciplina della selezione dell’immagine quotidiana: l’editing e la curatela sono aspetti essenziali del processo architettonico. Qual è il tuo rapporto con Milano e il Salone del Mobile.Milano? Amo l’eleganza e l’animazione di Milano, che fanno parte di ciò che rende il Salone così immancabilmente speciale. In genere trovo agio nella quiete, ma per questi pochi giorni è meraviglioso sentirsi parte di tutto questo: l’energia del luogo, le conversazioni, le riunioni di amici... 6 aprile 2024 Share