Jeanne Gang, l’architettura dell’innesto
È il nuovo volto di un’architettura sostenibile e inclusiva, capace di dimostrare che l’alta densità urbana può convivere con la dimensione umana. E che una metafora presa dalla botanica può aiutarci a concepire città più resilienti
Ha disegnato progetti eterogenei, dall’Aqua di Chicago - passato alla storia, in maniera decisamente riduttiva, come il grattacielo più alto progettato da una donna – a strutture in legno a basso impatto ambientale, come il padiglione dell’Hudson Valley Shakespeare Festival, immerso nella foresta intorno a New York. Eppure, i suoi lavori più emblematici sono forse legati all’ampliamento di edifici esistenti. Jeanne Gang, architetta americana socia fondatrice di Studio Gang, è convinta che l’architettura low carbon del XXI secolo debba essere concepita come un’operazione di oculata interposizione di nuove stratificazioni. O meglio, come un innesto, riprendendo il suo ultimo The Art of Architectural Grafting, appena dato alle stampe per Park Books. Il volume, che ha la caratura per imporsi come una nuova pietra miliare del dibattito architettonico, vede in questa ancestrale arte botanica un’opportunità per rigenerare tanto le città che il loro rapporto con la natura. Della sua visione e della sua pratica abbiamo parlato nel corso di questa intervista.
Architetti e progettisti devono ridurre l’impronta di carbonio incorporata negli edifici. Sappiamo tutti che si tratta di una questione urgente e che uno dei modi principali per affrontarla è rinnovare e riutilizzare le strutture che già abbiamo: questo consente di risparmiare dal 50 al 75% delle emissioni di CO2 rispetto alle nuove costruzioni. Si tratta di una pratica tradizionalmente legata alla conservazione storica, ma deve diventare molto più diffusa e di vasta portata, anche, a mio avviso, attraverso interventi progettuali più radicali che espandano la capacità e la funzionalità delle strutture originali. Questo è il prossimo passo in avanti critico. L’innesto architettonico è un approccio per realizzare questo tipo di aggiunte strategiche: è un concetto su cui faccio ricerca, che insegno e che metto in pratica da diversi anni. Il nuovo libro ora mi permette di condividerlo con una comunità più ampia.
La filosofia dell’idealismo attuabile trova radici nell’idea che dobbiamo compiere passi realizzabili, qualunque sia la loro portata, per progredire verso una società e un pianeta sani. In ogni progetto individuiamo gli aspetti pronti a essere oggetto di innovazione e implementazione. Invece di seguire lo status quo, cerchiamo di apportare un cambiamento dove possibile, attraverso azioni graduali, fino alla realizzazione. Sarà l’accumulo di tutti questi cambiamenti, su larga, media e piccola scala, che alla fine potrà generare grandi differenze, e noi vogliamo fare la nostra parte in questo processo. Anche se alcuni progetti possono avere un brief molto stringente, dobbiamo comunque cercare di riconoscere come ogni richiesta si inserisce in un contesto più ampio e come può stabilire connessioni importanti con sistemi ancora più vasti. Questo è il motivo per cui il nostro Studio accoglie con entusiasmo anche gli interventi considerati minori: possono comunque aiutare a spostare l’ago della bilancia verso miglioramenti su larga scala in tema di materialità, cambiamento climatico o innovazione sociale.
Penso all’architettura come a una cornice, che può modellare e facilitare il comportamento delle persone e il modo in cui interagiscono tra loro. Ad esempio, se si desidera migliorare la comunicazione tra le persone in un edificio, è bene renderle più visibili l’una all’altra o coreografare lo spazio in modo da avvicinarle fisicamente. Invece al Richard Gilder Center for Science, Education, and Innovation presso l’American Museum of Natural History di New York, abbiamo progettato l’architettura per suscitare curiosità e ispirare un senso di meraviglia. L’edificio stesso incoraggia i visitatori a seguire i propri interessi e a esplorare lo spazio in modo fluido, interagendo con gli exhibit per imparare qualcosa di più sulla scienza.
Facendo ricerca sugli innesti usati in orticoltura ho acquisito nuove idee e nuovi linguaggi da applicare all’architettura. L’innesto è la tecnica agricola che consiste nell’unire due piante, una vecchia e una nuova, in modo che possano crescere e funzionare come una sola, traendo beneficio l’una dall’altra. L’innesto architettonico condivide questi stessi obiettivi: si tratta di creare maggiore capacità a partire da ciò che già abbiamo. Si mantiene l’edificio originale ma ci si aggiunge qualcosa di nuovo, in modo che possa prosperare negli anni a venire. Naturalmente, in orticoltura ci sono anche alcune regole essenziali da seguire: non puoi innestare qualsiasi pianta su un’altra, ma sceglierne una per certi versi compatibile. E il mio libro espone alcune idee su ciò che può rendere un’aggiunta architettonica un innesto ben riuscito: ad esempio, occorre mantenere un senso di reciprocità tra vecchio e nuovo.
Abbiamo lavorato sull’edificio dell’Arkansas Museum of Fine Arts: inaugurato da meno di un anno, era già stato oggetto di varie aggiunte che ne avevano limitato la funzionalità, invece di espanderla. C’erano una serie di spazi inutilizzati e scomodi. Per aumentarne la capacità portante a livello sia strutturale sia funzionale, abbiamo riorganizzato l’interno dell’architettura esistente per semplificare il flusso dei visitatori e aggiungere spazio dedicato a nuove attività, come gli eventi e un ristorante. Le persone vivono esperienze più ricche quando possono spostarsi più facilmente e dispongono di spazi per incontrarsi, fare una pausa, mangiare e così via.
Penso che sia possibile, ma ogni luogo è diverso. Abbiamo bisogno di più città che riconoscano l’importanza di investire nella trasformazione dei propri beni pubblici sottoutilizzati in qualcosa che possa portare benefici a tutti i residenti. Come ha fatto Memphis, nel Tennessee, con il nostro lavoro sul Tom Lee Park: un progetto che ha trasformato un’infrastruttura sottoutilizzata in un nuovo parco pubblico e ha migliorato i collegamenti tra la città e il fiume Mississippi. Abbiamo lavorato con diversi gruppi di residenti durante il processo di progettazione, per comprendere le esigenze e i desideri che il nuovo parco poteva soddisfare. I progetti di rigenerazione urbana hanno maggior successo quando si basano su un processo di design inclusivo che valorizza la voce dei cittadini.
Durante i grandi eventi le idee fertili vengono messe in luce, e aiutate a diffondersi nel mondo. Spesso concepite come interventi minori, possono avere un effetto più ampio se riunite in un unico luogo. Ma per generare un reale cambiamento, le idee devono raggiungere anche soggetti esterni al mondo dell’architettura, come i governi: per questo dovremmo invitare i funzionari, e non solo gli architetti, alle mostre. Più le idee viaggiano lontano, più persone raggiungeranno e maggiore sarà la loro capacità di mettere in pratica un vero cambiamento.
Il nostro modo di lavorare si è fatto sempre più specializzato. Spesso abbiamo un architetto a capo della progettazione della forma di un edificio, un altro team che guida lo sviluppo, un altro per la struttura e così via. A poco a poco, gli architetti hanno delegato quasi tutte le diverse parti del lavoro e stanno quindi perdendo la capacità di comprendere il quadro più ampio. Per preservare la nostra capacità di generare cambiamento, dobbiamo impegnarci per evitare che l’ambito dell’architettura diventi troppo ristretto, limitato alla decorazione. Per rimediare possiamo cercare di collaborare in modo illuminato, in modo che tutti coloro che contribuiscono alla progettazione possano interagire con i ruoli degli altri per offrire maggiore qualità a tutti. Possiamo anche interagire direttamente con gli utenti finali del progetto, per comprendere meglio le loro esigenze e i loro desideri reali.
Venerdì 19 aprile alle ore 11.00, Jeanne Gang sarà in conversazione con Johanna Agerman Ross presso l’Arena “Drafting Futures”, Padiglione 14.