“MAAT, un museo aperto alla città”, parola di Beatrice Leanza
Intervista a Beatrice Leanza, direttrice del museo MAAT di Lisbona, un luogo dove arte, tecnologia e architettura sono strumenti di attivazione civile.
Abbiamo incontrato Beatrice Leanza, direttrice del Museo Arte Architettura e Tecnologia di Lisbona, per farci raccontare la sua visione di istituzione pubblica. “La mostra di Carsten Höller apre al pubblico il 5 ottobre, in occasione del quinto anniversario del museo,” ci racconta Leanza. “Per questo stiamo preparando un’intera giornata – dalle 11 alle 21 – con teatro, musica, performance, un mercato di produttori alternativi con l’idea che si possa trascorrere una giornata interamente al museo. Fino al 5 sarà un po' dura, ecco.” La critica e curatrice italiana, con un background nell'arte contemporanea e un lungo trascorso in Cina, ha iniziato a dirigere il MAAT nel settembre del 2019 e in pochi mesi ha cambiato radicalmente il DNA di un’istituzione che ambisce ad essere allo stesso tempo un punto di riferimento per la città e a livello internazionale.
Il board della EDP Foundation, che promuove le attività del museo, voleva attivare una pratica istituzionale diversa. Il MAAT è un museo di arte, architettura e tecnologia, e incrocia queste aree di conoscenza (come a me piace chiamarle, più che discipline) per affrontare temi e dei campi di esplorazione che ho investigato in passato con il mio lavoro. Io di formazione sono una sinologa, una storica dell’arte asiatica. Ho vissuto a Pechino per 17 anni, durante un periodo di grandi trasformazioni urbane, sociali ed economiche, che hanno inevitabilmente influenzato la mia ricerca e le mie attività curatoriali. Negli ultimi dieci anni, con l’organizzazione della Beijing Design Week, abbiamo esploso la potenzialità dell’attività culturale, concependo la cultural agency come una forma di patto sociale.
Oggi abbiamo la necessità di creare dei canali di comunicazione tra il mondo delle pratiche creative, il mondo accademico e della ricerca e quello dell’attivismo sociale. Non esistono degli spazi nella società dove questo possa realmente avvenire: abbiamo un dibattito estremamente polarizzato dalla politica o sclerotizzato del digitale. Al museo chiediamo di fare di più: da luogo di preservazione deve diventare un contesto in cui si sperimentano nuove forme di incontro. Questo è quello che abbiamo fatto fin da subito nel 2020, appena concluso il primo lockdown: oltre a ripensare l’interfaccia grafica e la presenza del museo nel contesto digitale, abbiamo commissionato una grande installazione allo studio SO-IL, trasformando gli spazi del museo in una grande macchina per l’incontro. Il messaggio era quello di voler connettere l’entità del museo al resto della città, e creare un’area partecipativa all’interno della quale potessero essere affrontate delle tematiche urgenti. L’installazione di SO-IL era accompagnata da un vasto public program, chiamato MAAT Mode, in cui abbiamo organizzato oltre 100 eventi e attivato 225 collaborazioni con altre istituzioni locali e internazionali, scuole e università, centri di ricerca e aziende.
Il nuovo museo progettato da Amanda Levete (completato nel 2016, ndr) è nato come parte della rivitalizzazione del riverbank. Il campus del museo è molto più ampio e comprende anche l’ex centrale elettrica, costruita nel 1908, e il giardino pubblico che continua lungo il fiume. La programmazione del museo non è rinchiusa in un singolo edificio ma riguarda un pezzo di città.
Il nuovo edificio del museo non è stato disegnato con delle vere e proprie stanze, ma è un percorso che lega continuamente interno ed esterno, generando ambienti di diversa altezza e ampiezza, con anche momenti di luce diversi: black box o spazi illuminati naturalmente. Facciamo in modo che tutti i contenuti che portiamo all’interno del museo siano in relazione con l’architettura. Ogni mostra è quindi un’esperienza anche fisica, che è ogni volta diversa. Non facciamo “mostre al metro quadro” ma progetti che hanno una stretta connessione con il modo in cui sono presentati. L’esempio più calzante di questo approccio è la mostra, appena inaugurata, dell’artista tedesco Carsten Höller. “Day” trasformerà tutto il nuovo museo con opere di luce e oscurità: un percorso interattivo che dialoga con lo spazio e le sue caratteristiche uniche. Il museo sarà illuminato solamente dalle opere di Höller, diventando una sorta di time telling machine.
Esatto. Il MAAT è un museo dove non vengono proposte esperienze, con un ingresso e un’uscita definiti, ma è un luogo che permette esplorazioni spontanee e autodirette. Quando si apre una mostra il lavoro comincia, non finisce. L’idea è che i progetti espositivi diventino delle piastre di Petri di quello che poi vogliamo andare a coltivare: idee e pensieri individuali e collettivi di chi viene a visitare le mostre. È interessante osservare come ogni giorno i visitatori abitano lo spazio e come questo si attiva attraverso la programmazione.