Storie Nico Koronis Testo di Marilena Sobacchi Aggiungi ai preferiti Nico Koronis La materia è il punto di partenza dei suoi progetti: ne esplora limiti e punti di forza per creare forme che ne mettano in risalto la semplicità e la ricchezza Niko Koronis non è solo un progettista di sicuro talento, ma anche l’esempio emblematico di un modo “contemporaneo” di essere designer. Innanzitutto, Koronis rappresenta fisicamente la rottura di quelle barriere geografiche che, fino a pochi anni fa, ci facevano parlare di design francese piuttosto che di design italiano o tedesco, olandese piuttosto che inglese. Non è più, per la generazione di Niko, il luogo in cui si è nati (e neanche cresciuti) a determinare che tipo di progettista sarai, piuttosto gli avvenimenti nella tua vita di formazione, le scuole frequentate, i maestri incontrati. Una generazione praticamente, ma soprattutto culturalmente, nomade: Koronis, greco di nascita, studia alla Welsh School of Architecture, poi ottiene un master in design alla Domus Academy di Milano. Non contento torna in Gran Bretagna e, alla prestigiosa AA di Londra, ottiene il suo PHD. È quindi fellow alla Central Saint Martin e, infine, ricercatore alla Alvar Aalto Foundation di Helsinki. Un elenco di titoli e di luoghi che certo non riportiamo come puro cursus honorum, ma per segnalare la vastità di interessi e l’apertura europea del suo percorso. Oggi, definitivamente a Milano, Niko Koronis si divide tra l’insegnamento alla NABA e la ricerca progettuale nel campo del design (a volte in associazione con l’artista plastica libanese Rania Sarakbi). Una ricerca che lo ha portato a tralasciare i “porti sicuri” della forma e ad aborrire quegli oggetti banali così ambiti dai direttori marketing, per concentrarsi invece su volumi materici auto-espressivi ove quello che conta è il gioco sottile delle proporzioni, la particolarissima “semplicità” ossia la ricchezza (si badi bene non è una contraddizione!) delle superfici ottenute. Partiamo dall’inizio: greco di nascita, anglosassone di formazione, italiano di adozione. Ciascun paese cosa ti ha dato? Mia madre era una pittrice, mio padre un ingegnere civile. Mi sembrava quindi naturale scegliere di diventare architetto. Sono stato molto fortunato perché, appena finito il liceo, ho potuto trasferirmi nel Regno Unito per studiare architettura. Era il momento magico della Cool Britannia, un periodo di crescita fenomenale, quantitativa e qualitativa, per la cultura anglosassone. E poi, alla fine degli anni Novanta, ho avuto la possibilità di trascorrere due anni a Milano: lì, è iniziato il mio rapporto con il design. È stato un momento fantastico: Milano era, allora, l'epicentro indiscusso del progetto. Infine, circa dieci anni fa, sono tornato a Milano definitivamente: ho iniziato a insegnare design e ho aperto il mio studio. Oggi, considero Milano la mia casa. Pur riconoscendo i momenti drammatici vissuti dalla Grecia nel recente passato, appare strano che, nel dibattito internazionale sul design, la Grecia non ricopra alcun ruolo. Qual è la percezione interna al paese relativamente al progetto? Storicamente, la Grecia ha avuto una presenza piuttosto debole in termini di design. Sebbene ci siano stati alcuni interessanti architetti modernisti e alcuni bravi grafici, il design del prodotto è praticamente assente. Le ragioni principali sono storiche, ma anche economiche e politiche. La mancanza di una vera produzione industriale ha portato come prima conseguenza a non considerare il design come fonte plausibile di investimento, sia in termini prettamente industriali sia per quanto concerneva la formazione. Ora però, finalmente, le cose stanno cambiando in modo positivo. Innanzitutto, si sta modificando l’output finale del progetto: mentre nel secolo passato il design concerneva principalmente l'oggetto prodotto industrialmente e in grandi quantità, ora il design più all’avanguardia prende in seria considerazione anche il “fatto a mano” e le edizioni in serie limitata. Inoltre, grazie al recente sviluppo (tecnologico, sociale, economico), il design non si occupa più solamente dell’oggetto, ma anche di sistemi e servizi, ambiti nei quali il ruolo dell'industria può ancora essere importante, ma certamente non è più basilare. La Grecia sta quindi finalmente uscendo da questa crisi lunga e traumatica che, si noti bene, ha inciso sul paese non solo a livello economico. Si sta ora creando un ambiente fertile per la scena del design di cui potremo, certamente, vedere i risultati nei prossimi anni. La tua formazione ti vedeva destinato all’architettura o quanto meno all’industrial design, viceversa recentemente ti sei spostato verso l’art design. Perché? Innanzitutto, non sono completamente d'accordo con il termine "art design" (ma questa sarebbe una discussione troppo lunga). Oggi, design significa molte cose diverse. È diventato un termine generale, che coinvolge forme diverse e interconnesse di espressione e di pensiero. Quando sono arrivato a Milano, negli anni '90, design era sinonimo (principalmente) di produzione industriale e supponeva, ma l’abbiamo capito soltanto in seguito, un modello di consumo insostenibile. L'evidente crollo di questo modello ha costretto i progettisti a valutare aspetti diversi e nuovi canali di progetto. Nello stesso tempo questo tipo di sviluppo (o di non sviluppo) che ha caratterizzato gli ultimi dieci anni ha reso, da un punto di vista pratico, più problematico il confronto con una "azienda di design" tradizionale. Nel tuo lavoro l‘attenzione maggiore sembra essere destinata alla materia: quasi a cercare la minor “forma” possibile capace di rendere espressivo il marmo piuttosto che l’acciaio, il metacrilato o qualunque altro materiale ti trovi a adoperare. Credo che tutti i materiali abbiano una storia da raccontare. Sono storie che, se ascoltate pazientemente e con mente aperta, possono aiutarci a superare i confini di un formalismo superfluo. Ciò non significa, tuttavia, che la forma degli oggetti non sia più importante, anzi. I prodotti finali del design saranno, prima di tutto e sempre, percepiti e registrati attraverso la visione. Tuttavia, al giorno d'oggi siamo costantemente bombardati da un'enorme quantità di contenuti visivi al punto da non riuscire più a elaborarli correttamente. L’onnipresenza stessa degli stimoli rischia di renderli insignificanti. Per questo motivo, quando è possibile, comincio a progettare semplicemente considerando le caratteristiche e i limiti di un determinato materiale, in questo modo non solo l'intero processo progettuale diviene più significativo, ma si può anche arrivare a risultati estetici inaspettati. Il tavolo NRT I, ad esempio, rappresenta un caso del genere: scolpito in un unico blocco di marmo nero del Belgio, il suo aspetto finale è semplicemente il risultato delle proprietà del materiale e dei processi di fabbricazione utilizzati. Questo specifico marmo, infatti, presenta la peculiarità, unica, che, se lucidato, passa dal grigio a un incredibile nero specchiato. All’attività di progettazione affianchi da sempre quella didattica. Cosa significa, oggi, insegnare design? Probabilmente l’aspetto più interessante dell'insegnamento del design è la sua evoluzione continua e ormai rapidissima. I capitoli più significativi del design del XX secolo sono sempre stati correlati a questi cambiamenti e alle relative sfide. Ora ci stiamo rendendo conto che il tasso di sfide è più rapido che mai: i futuri progettisti dovranno strutturarsi per trovare modi nuovi per affrontarle efficacemente. Offrire gli strumenti giusti per cercare di raggiungere questo risultato per me oggi significa insegnare il design. Kurt Vonnegut aveva affermato, circa cinquant'anni fa, che il ruolo dell'artista nella società è simile a quello del canarino in una miniera di carbone. Mi piacerebbe credere che il designer contemporaneo possa essere “un canarino” tanto quanto l'artista di allora. Tornando a ricordare la tua formazione cosmopolita, cui aggiungerei anche la permanenza in Finlandia, a quali maestri fai riferimento sia progettando sia insegnando? Sono sempre stato affascinato dal Movimento Moderno, sia nei suoi aspetti teorici sia in quelli pratici: da Loos e van Doesburg fino a Mies e Aalto. Credo si sia trattato di un "progetto" molto eccitante di cui, purtroppo, non abbiamo mai potuto vedere l’epifania finale. Essendo, però, il design in continua evoluzione, ci sono molte altre personalità, non necessariamente designer o architetti, ma anche artisti o scrittori, che hanno avuto un ruolo significativo nel plasmare la nostra disciplina. Ad esempio, i Radicali negli anni '60, o i Post-modernisti negli anni '80. Per questo motivo mi è quasi impossibile individuare “alcuni” maestri soltanto. Inoltre, credo sia molto importante rendersi conto che i maestri riconosciuti rappresentano solo una (piccola) parte della lunga storia del design. Ci sono molti altri eroi, non celebrati (Victor Papanek è un ottimo esempio), che solo di recente cominciano finalmente a ottenere il giusto credito e l'attenzione che meritano. Da essi abbiamo ancora tanto da imparare. 9 dicembre 2019 Share