La vita digitale degli oggetti
La migrazione digitale cui stiamo assistendo porterà a un futuro immateriale? Se lo chiede Alexandre Humbert, regista-designer con attitudine da filosofo.
Perché creiamo gli oggetti? La risposta va cercata nei film del designer e regista francese Alexandre Humbert, classe 1989. Dopo essersi diplomato alla Design Academy Eindhoven ha studiato teoria cinematografica e avviato una carriera nel cinema fino a quando non ha deciso di unire le sue due anime: quella del regista e quella del designer. Così cinque anni fa ha avviato il suo studio con lo scopo di fare design attraverso il cinema e oggi è uno dei design-filmmaker più richiesti. È resident artist al Musée des Arts Décoratifs di Parigi, dove ha trasferito temporaneamente il suo studio per produrre video sui meravigliosi oggetti del museo, e ha diretto 19 episodi della serie Object Interview. Ha collaborato con rinomati designer, musei e istituzioni per dar vita a narrative originali e il suo lavoro fa parte delle collezioni permanenti di molti musei. Il suo prossimo progetto è un film di 30 minuti per Belgium is Design con la curatrice Giovanna Massoni che sarà presentato durante il prossimo Salone del Mobile. Afferma di costruire oggetti cinematografici.
Sono generatori di emozioni. Cose che parlano del nostro modo di essere
Considero i film come oggetti a sé stanti: nei miei film gli oggetti reali non sono il punto di arrivo del processo di progettazione ma il punto di partenza di una narrazione che racconta chi siamo e il modo in cui ci comportiamo oggi. È un approccio umanistico che si concentra sulle emozioni che il design può generare, piuttosto che sulla funzione.
Un film non è una cosa autonoma: lavoro con montatori, istituzioni, designer, compositori... Il cinema è l’incontro di tante competenze diverse, il punto di arrivo di un lavoro di squadra dove ogni film ha il suo team che gli conferisce un’identità. Ho visto una maggiore sensibilità da parte di istituzioni, aziende e studi di design su come il video possa essere un mezzo con cui i designer possano giocare, e non sto dicendo qualcosa di nuovo: gli Eames l’avevano già fatto a loro tempo. In ogni caso sono abbastanza sicuro che nulla sarà come prima dopo questa crisi.
Ho cercato di esplorare questo argomento nel film Vandekamp Laundry. Parla di una lavatrice. Mi chiedevo come il sistema della lavatrice potesse influenzare il nostro modo di fare un film. Così prima ho deciso il formato – quadrato – poi ho usato il programma della lavatrice per generare la narrazione. In questo modo il film accelera e rallenta secondo i movimenti dell’oggetto.
Io reagisco a ciò che vedo. Se filmi un mastro vetraio mentre soffia il vetro devi essere reattivo a ciò che vedi, perché non c’è un secondo da perdere. Quando giravo Sleeping Beauties, invece, scrivevo la sceneggiatura nella stanza d’albergo, reagendo a ciò che avevo visto quel giorno, e il giorno dopo filmavo in reazione a ciò che avevo scritto la sera prima. È una costruzione di reazioni.
I film sono gli oggetti che faccio. Non costruisco più sedie, piuttosto rifletto sul modo in cui ci sediamo, sul modo in cui dobbiamo progettarla. Forse la forma del design in futuro non corrisponderà più a quella di un oggetto: sarà un testo, una fotografia, un film, una performance, una poesia, un suono.
Continueremo ad avere designer che sono maker, artigiani, certo, ma non possiamo ignorare il fatto di essere circondati da miliardi e miliardi di cose. Consumiamo oggetti e questo atteggiamento può essere messo in discussione. Molti designer stanno riflettendo sul perché creiamo gli oggetti. Non sto dicendo di non produrli più, ma sicuramente è qualcosa che io, personalmente, non posso più fare. Preferisco produrre narrazioni.
Non ho mai creduto che il design potesse salvare il mondo, ma amo quel suo ottimismo.