Storie Quale immaginario per Milano? Testo di Alessandro Ronchi Aggiungi ai preferiti L'identità di una città è fatta in larga parte di rappresentazioni. Ci sono stati momenti specifici in cui le esigenze del cinema e l'aspetto di Milano si sono incontrati, influenzando i reciproci immaginari. Se volessimo imbastire uno studio comparativo per stabilire quali caratteri rendano una città attrattiva per il cinema, probabilmente concluderemmo che si tratta di parametri dipendenti da innumerevoli, incontrollabili variabili se non completamente aleatori. Una città, in una fase della sua storia, può attirare set per una ragione come per il suo opposto. È soprattutto questione cangiante di essere la città giusta al momento giusto. Prendiamo, a modo di case history, Milano. Innanzitutto, bisogna sgombrare il campo da un possibile pregiudizio: essere – o sentirsi – particolarmente cool non garantisce il successo. Se è sorto, principalmente a partire da Matchpoint di Woody Allen, un certo immaginario della nuova Londra di South Bank, non si segnala un singolo film memorabile girato nel capoluogo meneghino in questo decennio in cui si è presentato come luogo più contemporaneo e cosmopolita d'Italia e ha scalato le classifiche turistiche fino a divenire prima meta italiana. Sono tre i momenti aurei specifici per l'immaginario cinematografico milanese. Proprio all'inizio degli anni '50, la Milano post-bellica con il suo paesaggio misto di macerie e grattacieli, sfollati e palazzi signorili si prestava all'ambientazione di opere come Miracolo a Milano (De Sica, 1951) e Cronaca di un amore (Antonioni, 1950). Se nel primo colpisce il campo sfollati allestito all'ombra del "Cremlino" di Città Studi, in una zona ora centrale, nel secondo la dinamica tra Palazzo Fidia di Aldo Andreani dove la protagonista Lucia Bosè vive l'amore borghese e le zone marginali di Milano (l'Idroscalo, la cintura di navigli) ancora campagna, non ancora rammendate al tessuto urbano, dove ha luogo l'amore-passione utilizza la toponomastica in senso psicogeografico. È sempre Antonioni ne La notte, un decennio più tardi, a caratterizzare la passeggiata di Jeanne Moreau dall'appartamento in un moderno grattacielo diviso con Marcello Mastroianni e le incomprensioni e l'incomunicabilità delle relazioni moderne fino a Sesto San Giovanni come un percorso a ritroso fino a una vita non indiretta, allontanandosi dal disagio nella civiltà. La prima metà degli anni '60 è segnata dal boom economico e, di conseguenza, dal boom cinematografico di Milano, città in vetrocemento delle industrie e del terziario e quindi candidata ideale per ambientarvi opportunità e disastri del momento storico. Apre Rocco e i suoi fratelli (Visconti, 1960). Il movimento di ascensione sociale dei Parondi, immigrati dalla Lucania, è anche un moto di presa, per tentativi, del centro storico dal seminterrato periferico dove si sono accasati. Perciò una delle scene più celebri mostra la rottura tra Alain Delon e Annie Girardot tra le guglie del Duomo rappresentandoli come turisti. Il posto (Olmi, 1961) è la stessa dinamica applicata all'immigrazione interna alla regione lombarda. La passeggiata amorosa dei giovanissimi protagonisti si svolge lungo il cantiere della metropolitana in piazza San Babila: anche i luoghi romantici vanno ritagliati negli interstizi di una città che cambia, sale e scava e non ha tempo per i sentimenti. La vita agra (Lizzani, 1964) adatta il capolavoro di Luciano Bianciardi e mostra gli effetti disumanizzanti del progresso economico a piena detonazione avvenuta, una detonazione interiore che annulla la pulsione anarcolibertaria dell'individuo togliendogli lo slancio per detonare invece il "torracchione" della Montecatini. Se in questa fase Milano viene scelta per il suo ambiguo dinamismo, la città torna popolare al cinema nella prima metà degli anni ‘70, durante gli anni di piombo, per ragioni diametralmente opposte. Ora è una città grigia, triste, segnata dallo smog e dal terrorismo. Liliana Cavani, nel 1970, ci ambienta I cannibali, apologo foucaultiano sulla violenza del potere. Sono poi gli anni del poliziottesco e del cinema appoggiato all'attualità. Sbatti il mostro in prima pagina (Bellocchio, 1972) e San Babila, ore 20: un delitto inutile (Lizzani, 1976) mostrano lati diversi della violenza politica, tanto da parte di giovani estremisti quanto degli apparati del potere. In particolare, nel secondo, la zona di San Babila dove fanno sede i giovani di destra con la sua rete di gallerie offre la perfetta toponomastica di labirinto e trappola per una caccia all'uomo. Milano odia, la polizia non può sparare (Lenzi, 1974), capostipite di genere, non offre solo l'immagine di una Milano triste e sporchissima correlativo oggettivo di una degradazione morale, bensì anche l'immagine altrettanto sconvolgente di Rho ancora borgo di campagna delimitato rispetto alla metropoli da una cintura di prati e campi. Più recentemente c'è molto poco, prescindendo da Io sono l'amore (Guadagnino, 2009) che si limita a ripescare un immaginario viscontiano eleggendo a nucleo del film la villa Necchi-Campiglio di Pietro Portaluppi. 30 agosto 2021 Share