Quali sfide e opportunità nel mondo del design e dell'arredamento nel 2024?
Abbiamo chiesto a tre esperti di spicco cosa ci si attende nell’anno appena cominciato. Parola ad Aric Chen, Federica Sala e West Chin
All’indomani della pandemia sembrava che nulla sarebbe più tornato come prima. Quando, chiusi in casa, potevamo apprezzare una diminuzione significativa dell’inquinamento e, da lontano, una ripresa vigorosa della natura, siamo stati sfiorati tutti più o meno tutti dagli stessi pensieri: di poter vivere con meno; che prendere l’aereo non fosse sempre così necessario; e altre considerazioni di simile tenore. Le cose sono andate un po’ diversamente e il modo in cui l'attività umana – ripresa di gran carriera – sta cambiando il pianeta fa sempre più parte della discussione in corso nel mondo del design. Cosa è rimasto e cosa è scomparso di quel periodo di ripensamento collettivo che è stato il Covid e quali sono le sfide “che non avevamo visto arrivare”, oggi, in cima all’agenda del 2024? Quali sono gli scenari che queste nuove sfide aprono? Abbiamo chiesto il parere di tre opinion leader del settore.
Aric Chen, Direttore Generale e Artistico del Het Nieuwe Instutuut di Rotterdam: “Non torniamo sui nostri passi ma affrontiamo la sfida della sostenibilità collettivamente”
“Una delle osservazioni più degne di nota, ma forse prevedibili, che si possano fare sul periodo successivo al periodo Covid è la rapidità con cui siamo tornati al nostro ‘business-as-usual’. È invece sorprendente perché sappiamo che questo modo di vivere è insostenibile. Guardando tanto alla crisi ecologica quanto ai mutamenti sociali e tecnologici in corso si evidenzia la necessità di cambiamenti profondi che implicano il cambiamento e la ristrutturazione fondamentale di tutto il sistema e dei modi di fare le cose che sono alla base dell’industria del design. Ad esempio, aggiungere qua e là qualche componente riciclata ha un valore discutibile quando in realtà abbiamo bisogno di creare economie circolari completamente nuove. Agire da soli non è più sufficiente; per quanto banale possa sembrare, la collaborazione è l’unica via verso un futuro più desiderabile, il che significa che gli attori – aziende, designer, istituzioni – dovranno iniziare a pensare in termini più collettivi, anche se vogliono sopravvivere come realtà individuali. Ciò che impedisce alla maggior parte di noi di farlo è la paura – di perdere la propria posizione, di rimanere indietro, dell’ignoto – ma agire spinti dalla paura raramente porta a esiti positivi. Quindi, troviamo il coraggio”
West Chin, proprietario di West | Out East, fondatore di West Chin Architects & Interior Designers: “Occorre ripensare la casa e i suoi spazi, che tornano centrali nella vita delle persone. La parola chiave è ‘comfort’”
“Le persone non considerano più le loro famiglie come qualcosa di scontato”, afferma West Chin. Pandemia, crisi economica e cambiamenti sociali hanno innescato un cambiamento che sembra diventato una tendenza duratura. “Le persone trascorrono più tempo a casa con le loro famiglie, anche se non quanto vorrebbero”. Chin osserva come i clienti che possono permetterselo stiano acquistando proprietà più grandi. L'obiettivo è che una famiglia “primaria” possa ospitare i propri figli con i rispettivi coniugi, ad esempio, tanto durante le vacanze quanto nei momenti di crisi. “Tutto ciò – spiega – significa strutture più grandi e multifunzionali con spazi centralizzati che facilitino la convivenza, ma che siano al contempo gerarchiche e flessibili per favorire integrazione e separazione secondo necessità. O per permette di attivare parti specifiche della casa solo durante determinate stagioni e tenerle chiuse per il resto dell’anno”. Stanze come sala TV, dining e cucina diventano cruciali. “Sono passati i tempi in cui le persone compravano le cucine solo ‘di bellezza’: ora si cucina, si beve vino guardando gli altri cucinare o si dà una mano”, nota Chin. Inoltre “il tavolo da pranzo è diventato il luogo in cui le persone vogliono trascorrere più tempo, per mangiare e anche per parlare”. In generale, c'è una crescente domanda di prodotti che possono “offrire un ambiente più comunitario”, per cui c’è un focus sui divani piuttosto che sulle sedie. “Detto ciò, le persone non vogliono affatto articoli scomodi e in questo stadio sono pronti a sacrificare l'estetica per il comfort. Fortunatamente, ci sono molte buone aziende che possono fornire entrambi. Saranno tempi duri per i mobili belli ma poco confortevoli”.
Ciò significa naturalmente maggior attenzione alla funzionalità, e, per quel che concerne la questione della ‘democraticità’, che in origine era nella natura del design industriale, Chin riflette: “Vivo a New York, dove ci sono persone molto ricche e persone molto povere, e non molto nel mezzo. O almeno, questo è il percepito di molti. Troppe persone non possono permettersi un design di qualità, che tratti di abbigliamento, mobili, o altri oggetti di uso quotidiano. Si fa sempre più acuto il divario tra chi può e chi non può. Non sono sicuro se ci sia una soluzione immediata, ma spero che attraverso l'istruzione e investimenti strategici, il buon design torni a essere più accessibile a tutti”. Arriva per ultimo, ma non meno importante, ciò che Chin descrive come “l'elefante nella stanza”. L’AI, sfida e opportunità insieme: “La mente umana è un luogo molto speciale per la creatività. Ora la domanda che dobbiamo farci è: la mente umana diventa meno rilevante o più potente con l'AI? Penso che tutti noi, architetti, designer, scrittori, poeti, ballerini, dovremmo fare uno sforzo molto grande per tenere l'intelligenza artificiale a bada”.
Federica Sala, curatrice indipendente e design advisor, direttrice editoriale di The Good Life Italia: “La creatività è il drive del cambiamento sì, ma la creatività non deve essere solo dei creativi”
“Ci si chiede spesso come i designer e la creatività contribuiranno alla sostenibilità, tuttavia penso che in primis siano imprenditori, imprenditrici e manager le persone preposte a dettare il cambiamento. Loro devono essere i visionari. Cambiare il modo di produrre – o di acquistare – costa tempo, energia e risorse. È ancora più difficile se non viene percepita la necessità ineluttabile delle cose. Il design è da sempre improntato al problem solving e sta già dimostrando, grazie ad aziende all’avanguardia, che la creatività è in grado di trasformare radicalmente una filiera produttiva e il suo impatto sull’ambiente. Occorre però una visione imprenditoriale per affidare ai creativi non solo il progetto di un tavolo, o di un mobile, ma quello di ripensare la fruizione di uno spazio (come, ad esempio, è stato fatto dallo stesso ente organizzatore della fiera Salone del Mobile.Milano) oppure la catena di produzione e la logistica dell’azienda. È l’imprenditoria a doversi aprire alla creatività, per ripensare fabbriche prima che arredi.
Le aziende hanno il dovere di progettare un mondo che lotti contro gli sprechi, sia di risorse che di materiali. Devono garantire qualità e durata dei loro prodotti. Per questo serve uno sforzo commerciale e il coraggio di abbandonare i trend del momento, osare soluzioni alternative, contrastare la mentalità ‘usa e getta’ che per anni ha guidato gran parte del commercio al dettaglio. Esistono fortunatamente già moltissimi esempi – tra cui quegli oggetti realizzati in un unico materiale – che rispettano standard di sostenibilità e democraticità senza perdere le loro qualità estetiche. Ma, naturalmente, dipende sempre da cosa intendiamo oggi per estetica. Perché l’estetica svuotata dalle idee è un oggetto muto. A maggior ragione oggi, con l’avvento dell’AI, si vede già come l’estetica fine a se stessa sia il riflesso di qualcosa che non esiste. Mi riferisco per esempio al fenomeno del deep fake con la creazione d’identità virtuali.
Parafrasando l’incipit di Anna Karenina (“Tutte le famiglie felici sono uguali, ogni famiglia infelice è infelice a modo suo”) potremmo dire che assistiamo a una standardizzazione degli obiettivi individuali, che ha come conseguenza anche una desensibilizzazione del sentire. Mentre invece è nella diversità che troviamo la bellezza, ed è nella nostra diversità di pensiero che troviamo traccia della nostra umanità. Per questo dovremmo osare, non per mero gusto di originalità, ma perché la nostra immaginazione e la nostra capacità di sentire sono lo strumento che renderà possibile collaborare con l’AI e indirizzarla anziché esserne travolti. L’empatia che dovrebbe tornare a essere al centro del nostro approccio progettuale va esercitata in una palestra collettiva. Per questo servono strumenti e per avere buoni strumenti servono dei progettisti con visione, e per avere dei progettisti capaci di applicare alla vita materiale il pensiero laterale servono dei buoni educatori… Insomma per fare un tavolo ci vuole un seme!”