Storie Tom Vack Testo di Patrizia Malfatti Aggiungi ai preferiti Il fotografo americano che ha raccontato l’evoluzione della scena internazionale del design dagli anni ’80 con un linguaggio fatto di luce. Fotografo personale di Philippe Starck per dieci anni e con una lunga collaborazione con Ingo Maurer, lo hanno richiesto, poi, in molti a immortalare i propri pezzi – da Michele De Lucchi a Ron Arad, Marc Newson, Massimo losa Ghini, Alessandro Mendini, Aldo Cibic, Antonio Citterio, fra i primi, e successivamente, tra i molti, Luigi Colani, Andrea Branzi, Rodolfo Dordoni, Stefano Giovannoni, Toshiyuki Kita, Satyendra Pakhalé. Non mancano all’appello le aziende che, numerose, gli hanno affidato l’immagine dei loro prodotti – dagli arredi di Classicon, Driade, Flos, Luceplan, Magis, Moroso, Veneta Cucine, Venini, Vitra alle moto, auto, abbigliamento, calzature, borse, yacht e orologi di brand importanti. Dopo gli studi alla Facoltà di Architettura e Design alla University of Illinois Chicago Circle, inizia a lavorare come fotografo autodidatta, realizzando i cataloghi annuali di molte aziende. Nel 1987 lascia gli Stati Uniti per l’Europa, spostandosi tra Germania e Italia, stabilendosi poi definitivamente a Milano, attratto dalla sua effervescenza. “Voglio rappresentare un oggetto in una foto piuttosto che fare una foto di un oggetto”, ha sempre ripetuto come mantra. Le sue fotografie sono, infatti, veri e propri ritratti, in cui la caratteristica dominante è la manipolazione della luce. Luce che emerge dal buio, usata artisticamente per esaltare la natura intima dell’oggetto, dalla forma ai materiali. L’uso particolare di ombre e chiaroscuri, i tagli obliqui, le inquadrature inusuali, la profondità di campo, evocano la sua passione di ragazzo per il cinema noir americano degli anni ‘40-’50. Le sue immagini svelano anche la fascinazione per il surrealismo fotografico di Man Ray, così come per l’arte di László Moholy-Nagy, autore del primo testo fondamentale sulla fotografia pubblicato dal Bauhaus. E anche quel paesaggio urbano della sua città natale, Chicago o la “città del vento”, con i suoi repentini cambi di luci e profondità vertiginose, è sicuramente complice inconscio delle sue composizioni. Non c’è traccia di nostalgia nelle sue immagini, ma solo spazio per l’inconscio e ciò che è rimasto aggrappato al suo cuore e al suo animo. Dal 2010 amplia la propria visione artistica e ricerca estetica, affiancando alla fotografia di design un percorso parallelo dando vita a immagini artistiche, "OPenEYe, Art Project”: una nuova (per lui) interpretazione della realtà, senza restrizioni o confini, attraverso sovrapposizioni di luoghi, persone e oggetti. Labirinti di segni, trame e colori. Tra i tributi dedicategli, la mostra “Vanity of Object. Tom Vack Design Photography” alla Neue Sammlung di Monaco nel 2014, e il docu-film "Drunk on light. Un fotografo americano a Milano" di Ester Pirotta ed Emilio Tremolada presentato nel 2016 al MDFF/Milano Design Film Festival. Nel 2015, in occasione di Expo Milano, Tom Vack ha fotografato le opere d’architettura di Michele De Lucchi, iniziando un percorso di sperimentazione e messa a punto di un sofisticato processo di creazione di fotografie panoramiche, perfezionata nel corso degli anni successivi. www.tomvack.com www.tomvack-openeye.com Possiamo affermare che la materia di cui sono fatti i suoi sogni è la luce. Nelle sue tante fotografie lei sembra proprio dare luce alla luce. Perché questa necessità? Che cosa illumina i nostri sogni? Riuscite a ricordare la fonte di luce nei vostri sogni? Creare materiale onirico è una delle funzioni di un fotografo di design. Le riviste e i cataloghi sono dei manuali per sognare la casa che si desidera o lo spazio dove si lavora, illustrazioni di un ideale. Un’altra funzione è analizzare e comunicare forme e materiali. Il mio lavoro per Magis rientra in questa categoria. Penso alla luce come a qualcosa che rivela e all’ombra come un suo complemento. L’importanza della luce nel rappresentare le forme è fondamentale, ma lo è anche la sua capacità di creare un’aura. È il dramma o il sogno che distingue il sublime dal banale. Voglio ritrarre un oggetto in uno stato di presenza elevato e commuovere lo spettatore con una prospettiva di vita rinnovata. Questo naturalmente è legato alla natura del soggetto che viene ritratto. Ho lavorato con designer originali e talentuosi, il primo passo per una buona foto è un soggetto che sia bello e attraente. Nel mio documentario, presentato al Milano Design Film Festival nel 2016, ho scelto il titolo “Drunk on light” (Ubriaco di luce) proprio per sottolineare l’effetto della luce nel mio processo creativo. Nella mia vita mi sento davvero intossicato dalla luce. Quante volte siamo affasciati da un momento di luce particolare? Che cosa rappresenta per lei un oggetto (rigorosamente di design, ovviamente)? Che cosa l’attrae maggiormente: forma, colore, estetica, proporzioni, o altro? Sono la personalità o la purezza delle forme di un oggetto che mi colpiscono prima di tutto, il mio punto di partenza. È qualcosa di misterioso che mi affascina, qualcosa che va al di là della forma e dell’estetica, qualcosa che ha a che fare col mio senso di bellezza. Il motivo per cui troviamo qualcosa che ci attira in un oggetto, un luogo o una persona non può essere elaborato o analizzato in modo convincente. Quando ritraggo un oggetto in studio, voglio esaltarne le caratteristiche fisiche perché il valore di una foto sta anche nel rivelare tali attributi. A proposito di forme e sfide, il servizio fotografico delle sculture in plexiglass di Andrea Branzi per la Galleria Giovanni Scacchi è stato qualcosa di speciale per la loro trasparenza ottica e il punto di vista filosofico di Andrea. La sfida consisteva nel trovare un modo originale di ritrarre oggetti trasparenti e riflettenti. La soluzione è stata creare degli sfondi con immagini che potessero essere catturate e trasformate dagli oggetti stessi. Come concilia la sua interpretazione di un pezzo di design con l’immaginario di chi quegli oggetti li ha progettati? C’è mai stato qualche designer o imprenditore che non si è ritrovato in un’opera specifica? Non mi piace pensare a me stesso come a un solista, ma piuttosto come a un accompagnatore. C’è molto di più da affiancare che non la sola prospettiva di un designer, c’è l’identità dell’imprenditore e la sua visione. C’è anche la visuale del grafico da considerare, come ad esempio nel concept del catalogo 2006 di Magis, che è stato ideato da Christoph Radl. In altri casi ho creato le immagini e il grafico le ha assemblate in un libro o un catalogo, come nel caso del catalogo Spring Collection con Artemio Croato per Moroso. Ho lavorato con Ingo Maurer per oltre 30 anni, lui era allo stesso tempo un designer e un imprenditore, e voleva che il suo punto di vista fosse meticolosamente proiettato in ogni aspetto delle fotografie. Il lavoro che abbiamo fatto insieme è stato quello di costruire l’identità della sua azienda così come la presentazione delle sue lampade. Ingo una volta ha scritto: ’Qualche anno fa, per disperazione, ho giurato che se mai avessi trovato un fotografo con cui poter lavorare tranquillamente e in modo creativo gli sarei stato così grato che l’avrei probabilmente sposato. Poi ho incontrato Tom Vack’. In effetti è stata una relazione di un’intensità simile a quella di un vero matrimonio. A volte è più facile mettere insieme le persone che non le idee. Talvolta era lui a suggerire un’idea, come nel catalogo Mamonouchies, ispirato alle foto dello studio Brancusi di Steichen, nel cui caso il mio contributo artistico e professionale è consistito nel tradurre l’idea e applicarla a una serie di immagini. D’altro canto, io ho ideato il concept di uno shooting in cui l’intera scenografia era costruita in polistirolo e permetteva agli arredi e agli spazi di fluttuare, grazie all’abile capacità manuale di Hagen Szech. Aldo Ballo è stato il primo che, dagli anni Cinquanta, ha raccontato in modo nuovo gli oggetti, abbandonando le foto "da chiodo" a favore di una fotografia industriale, alla scoperta dell’oggetto, andandoci dentro e restituendogli l’anima. Entrambi siete stati un punto di riferimento per tantissimi designer, addirittura in molti casi gli stessi. Si sente in parte un suo erede? Vi siete mai conosciuti? Naturalmente siamo tutti correlati a quanto fatto da chi ci ha preceduto. Non ho mai conosciuto Aldo Ballo, ma da studente di architettura negli anni ‘60 a Chicago, ricordo la freschezza e la modernità delle sue immagini, la sua luce morbida priva di ombre e l’uso di sfondi bianchi. Negli anni ‘80 ho fatto da contrappunto al suo approccio alla luce, i miei riferimenti erano più in linea con Moholy Nagy e George Hurrell. Ho apprezzato le parole di Alessandro Mendini che, alla fine degli anni ‘80, ha definito la mia luce caravaggesca. Nel fotografare oggetti di design ho giocato con le ombre e l’accentuazione di luce intensa. Il mio vocabolario della luce si è evoluto e si è arricchito nel corso degli anni, mentre si passava attraverso espressioni di minimalismo, cyberismo e concettualismo. Ho spesso costruito io stesso i set per le riprese fotografiche, proprio per poter avere uno spazio pensato per giocare con la luce. Gli anni Ottanta hanno portato un nuovo ordine di originalità nel mondo della comunicazione visiva. Quando è arrivato a Milano dagli Stati Uniti che cosa ha trovato che ora non c’è più? Fa bene a enfatizzare l’originalità come parola chiave per gli anni ‘80, non solo dal punto di vista visivo, ma rispetto a tutti i sensi e pure ai pensieri. Penso sia stato un decennio di reinterpretazioni. Nei miei anni di studio alla New Bauhaus a Chicago, la ricerca si fondava su quella filosofia e su quei tempi. Ma, a un certo punto, un esploratore desidera tornare all’origine finché non gli torna la voglia di cercare nuovi orizzonti. Ecco a che punto ci troviamo ora: si aspira alla bellezza e al comfort in una casa e, pur essendo uno degli ingredienti, l’originalità non è quello principale. Dopo tutto, non si può essere continuamente originali o troppo avanti per la propria cultura, come è permesso invece a un artista. Detto ciò, il prevedibile, spesso copiato, diventa noioso e dunque si continua ad avanzare. L’architettura d’altro canto sta esplorando e ridefinendo il vocabolario delle forme dello spazio e avrà bisogno di nuovi attori nei suoi spazi interni. Mi diverto sempre nel vedere come sono arredati i set cinematografici nei film sul futuro. Un altro fattore importante è la fine di una generazione di imprenditori del mondo del design con le loro visioni individuali e la loro passione. Ho lavorato con Enrico Astori, ad esempio, un imprenditore visionario e talent scout. È stato Starck a presentarmi a lui e ad Adelaide Acerbi. È iniziata così una lunga collaborazione con Driade che è durata ben vent’anni. Lei ha assistito al grande passaggio epocale dalla fotografia tradizionale al digitale. Traumatizzante o stimolante? Per 25 anni ho lavorato con un banco ottico per la sua alta risoluzione e precisione. Ho trascorso moltissimo tempo a studiare la luce che doveva trovarsi al di fuori del campo visivo dell’immagine, dove più grande è il set e più difficile è riuscirci. Per non parlare delle imperfezioni del limbo di alcuni studi in cui ho lavorato in tutto il mondo, difficilissimo fare correzioni. La fotografia digitale ha aperto un mondo di nuove possibilità procedurali e operative, mettendo fine contemporaneamente a una serie di inconvenienti e limitazioni. Ha anche facilitato nuovi tipi di espressione e maggiore precisione grazie alla post-produzione. Ha messo a disposizione più strumenti da utilizzare nella fotografia di architettura, ambito in cui faccio ricerca sin dal 2015, quando ho fotografato i padiglioni di Michele De Lucchi per l’Expo a Milano. Utilizzando uno stitching panoramico senza profili curvi e relative trasformazioni, sono in grado di creare un’immagine in alta risoluzione e punti di vista che non sarebbero ottenibili con le lenti di un obiettivo. È lo smartphone che si è rivelato la più grande rivoluzione nel forum pubblico della fotografia in quanto, grazie a un algoritmo, la macchina fotografica può creare una bella foto indipendentemente dalle capacità di chi la sta scattando. Non si tratta di un trauma, ma ciò ha spostato l’autorità del fotografo dall’aspetto tecnico a quello estetico-emotivo. Negli ultimi anni ho ampliato le mie capacità di utilizzo delle tecniche di post-produzione e i punti di vista appresi lavorando ai miei progetti di fotografia di design e architettura, e li ho applicati nei miei progetti artistici ‘Openeye Art Projects’. Marshmallow by George Nelson, Vitra - Tom Vack Photographer Soft Collection by Ron Arad, Moroso - Tom Vack Photographer Lola Mundo by Philippe Starck, Driade - Tom Vack Photographer Wo bist du Edison, Ingo Maurer - Tom Vack Photographer Chair One by Konstantin Grcic, Magis - Tom Vack Photographer Transparency collection by Andrea Branzi, Galleria Giovanni Scacchi - Tom Vack Photographer Liquida cucina by Stefano Giovannoni, Veneta Cucine - Tom Vack Photographer Ristorante Garage Italia by Michele DeLucchi - Tom Vack Photographer 14 dicembre 2020 Share