Storie Tra spazio domestico e felicità: intervista con Emanuele Coccia Testo di Giulia Ossola Aggiungi ai preferiti Nel saggio “Filosofia della casa”, i trenta traslochi vissuti dall’autore in giro per il mondo diventano occasione per riflettere su un argomento ancestrale, che riguarda tutti noi. “Sarà Whatsapp e non il Modulor di Le Corbusier ad essere il modello dell’abitazione collettiva”, mi dice Emanuele Coccia, uno degli intellettuali più eclettici e stimati dei giorni nostri. Classe 1976, filosofo e professore all’École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi, ha pubblicato da poco “Filosofia della casa. Lo spazio domestico e la felicità” (Einaudi, 2021) in cui teorizza una nuova dimensione esistenziale della casa, lo spazio in cui tutti gli oggetti esistono come soggetti. O meglio, la soglia a partire da cui un soggetto diventa realtà del mondo. Un libro raffinato, impossibile da non sottolineare in alcuni passaggi, in cui il suo vissuto personale si intreccia con discipline diverse. E dove non mancano dissertazioni sulla moda e i social media - visti come “saloni domestici virtuali” - gli architetti e le città contemporanee “che ormai stanno finendo”. Dopo lavori come “La vita delle piante. Una metafisica della mescolanza” (Il Mulino, 2018), libro potente focalizzato sul fatto che le piante sono le nostre ultime divinità. E “Métamorphoses” (Rivages, 2020), incentrato sul nascere come metamorfosi, hai deciso di dedicarti al tema domestico. Come nasce l’idea? L’idea di scrivere questo libro è nata nel tempo, a causa dei miei 30 traslochi. È solo traslocando che ho capito davvero che cos’è una casa: un mondo dentro al mondo. È un primo elemento importante perché dimostra che la casa è un movimento cosmico e non un semplice fatto architettonico: fare una casa non significa semplicemente costruire un artefatto, ma trasformare il mondo, costringere il mondo ad assumere una certa forma che corrisponde alle nostre esigenze. Questo, a sua volta, significa che non è vero che il mondo è fatto per ospitarci: non siamo semplicemente al mondo, per essere nel mondo dobbiamo ‘cucinare la realtà’, trasformarla per poterla abitare. D’altra parte, l’insieme di oggetti e soggetti che mettiamo vicino e a cui vogliamo stare vicini ha il compito di rendere la nostra vita migliore. L’essenza della casa è espressa in questo ‘migliore’, in questo stare meglio. Una casa è un oggetto morale e non architettonico. Una casa è quindi il tentativo di plasmare il mondo a propria immagine e somiglianza, di costruire noi stessi e rappresentarci. Nel libro però spieghi che la casa contemporanea è una sorta di caverna platonica. Come si può raggiungere la felicità senza stare confinati nelle nostre case? La casa contemporanea è ancora immaginata, pensata e costruita su costumi e abitudini di un’umanità ottocentesca. Lo è in parte per l’inerzia di Stati e di regolamenti legislativi, in parte per la pigrizia degli architetti e in parte perché non abbiamo avuto voglia di rivoluzionare la casa quando tutto quello di cui abbiamo sempre avuto bisogno per essere felici era in città. Ma quello che adesso sta cambiando è che la città sta finendo, da molti punti di vista. Questo non significa che saremo costretti a vivere confinati nelle nostre case. Significa che la casa assumerà moltissimi dei tratti che erano propri della città. È già successo grazie ai nuovi media, da intendere soprattutto come corridoi digitali volti ad ampliare la nostra esperienza domestica. In fondo è grazie a Instagram e a Facebook che la casa è già una sorta di piazza pubblica in cui incontrarsi e osservare la vita degli altri. I social secondo te sono spazi concepiti secondo un immaginario domestico: li definisci “saloni virtuali che ci permettono di coabitare con decine di altre persone bypassando l’esperienza della città”. Questa spinta sempre più collettiva e globale come influirà sull’evoluzione del nostro modo di abitare? I nuovi media da un certo punto di vista sono case virtuali, case allargate, perché ci permettono di vivere con chi non appartiene alla nostra famiglia. Quello che probabilmente succederà è che le case minerali dovranno adeguarsi a questi spazi domestici digitali e liberarsi dell’immaginario genealogico che le ha strutturate. I social sono strumenti potentissimi di mescolanza di realtà e finzione che cercano però ancora artisti che di questi strumenti di trasformazione della vita in gioco ne sappiano fare dei laboratori di invenzione. È curioso perché Facebook in fondo è una strana forma di diario pubblico e collettivo, eppure non c’è stato nessun Omero o nessun Proust capace di appropriarsi di questo genere: sono strumenti ancora largamente sotto-utilizzati. Bisognerebbe usarli per fare arte, per fare avanguardia, e non per trascorrere il tempo. E fare avanguardia su questi spazi significherebbe anche disegnare nuove forme di associazione, nuove relazioni amorose. Al di là della forma che prenderanno i social media, le nostre case diventeranno sempre più simili alla socialità prodotta da questi strumenti. Sarà Whatsapp e non il Modulor ad essere il modello dell’abitazione collettiva. Ed è in questo sforzo collettivo di invenzione che si giocherà buona parte della felicità del futuro? Parlando di futuro, scrivi che la costruzione dell’individuo nella modernità si fonda su due cardini, il lavoro e l’amore: il primo riservato alla città e il secondo allo spazio domestico. La modernità nasce strappando il lavoro alla casa, ma oggi le case si stanno riappropriando della dimensione lavorativa. È un passaggio così radicale per il nostro domani? La modernità nasce quando la produzione della ricchezza cessa di essere un fatto domestico, familiare, legato a un’appartenenza genealogica, e diventa un fatto pubblico, politico: sono le nazioni e non più le grandi famiglie a dover produrre la ricchezza. Per questo il lavoro - l’insieme delle attività che producono ricchezza - migra dalle case alla città. È anche per questo che le case diventano più ‘urbane’: devono ora solamente rendere possibile la prossimità spaziale della popolazione ai luoghi di produzione. Nazioni e città diventano il luogo di produzione, di distribuzione e di consumo di questa ricchezza che ridisegna interamente il tessuto sociale e l’insieme delle identità della popolazione. Proprio qui sta il punto, per questo stiamo assistendo a qualcosa di così rivoluzionario: il ritorno del lavoro a casa è la fine di questa modernità e anche la fine delle città. Se diventa possibile lavorare a casa, non c’è alcun bisogno di lavorare vicino ad altri in funzione delle esigenze produttive o professionali, l’ordine dell’associazione diventa libero e arbitrario. E da questo punto di vista l’amore forse può prendersi la rivincita sul lavoro. Non necessariamente l’amore matrimoniale, perché anche la famiglia era un’unità patrimoniale e non affettiva, che doveva rendere possibile il legame tra produzione e riproduzione. Quando tutti lavorano e la riproduzione non serve più a riprodurre la forza lavoro, l’associazione amorosa può creare nuove forme. Se nell’epoca dell’antropocene diciamo che il Pianeta stesso è diventato casa, questa casa-mondo come può allargarsi anche ai non umani? Un modo per definire l’antropocene è dire che ora il Pianeta è diventato la nostra casa: non c’è più uno spazio altro che non sia occupato e abitato dagli uomini. D’altra parte, però, questo significa che la nostra casa non ha più la forma tradizionale, quella in cui abitavano solo esseri umani. La nostra casa, che è grande quanto un Pianeta, accoglie ora milioni di specie e non possiamo più permetterci di trattare queste specie come ospiti ingrati, come topi o scarafaggi. Da questo punto di vista siamo noi che dobbiamo cambiare atteggiamento imparando a vivere diversamente, ma anche a pensare le case come qualcosa di molto più vicino a stalle o zoo-giardini di quanto abbiamo fatto finora. Hai collaborato con Philippe Parreno, i Formafantasma, Bas Smets. Che ruolo ha oggi un filosofo? Non ho mai considerato la filosofia come una disciplina separata dalle altre. Il nome filosofia è un termine ironico che nell’antica Grecia era stato inventato per opporsi alla logica della specializzazione e degli esperti. Il mio legame con un certo sapere non è definito da un metodo, da un maestro, dall’appartenenza a una confraternita, ma da una passione irresistibile di cui non posso dare conto. La filosofia è questo: l’insieme di tutti i saperi che sono stati generati non da un metodo o da una disciplina, ma da una passione irresistibile che non ha solo cambiato la postura del soggetto che conosceva ma anche quella della conoscenza prodotta, che declina il verbo amare e non quello sapere. Per questo non ha senso pensare che il filosofo o la filosofa debbano occuparsi di Kant, Hegel o Aristotele. Un’opera di Parreno è già filosofia, così come lo può essere una mostra dei Formafantasma o un parco di Bas Smets. Titolo: Filosofia della casa: lo spazio domestico e la felicità Anno di pubblicazione: 2021 Lingua: Italiano