Massimo Iosa Ghini, edonista sostenibile
Dopo un esordio nell’avanguardia, l’architetto bolognese ha fatto della sintesi tra pragmaticità e accoglienza il perno del proprio linguaggio. Senza mai venire meno alla chiamata di un progetto fatto non per piacere, ma per restituire piacevolezza
Quarant’anni di carriera sono un punto di arrivo significativo. Tanto per voltarsi indietro, verso le origini e i messaggi dei propri lavori, tanto per guardare avanti con ostinato ottimismo, cogliendo e indirizzando segnali di attualità verso nuovi traguardi. Arrivato alla ribalta con il design degli anni ’80, teorico della piacevolezza di linee morbide ed accoglienti, Massimo Iosa Ghini dirige e coordina con il suo studio Iosa Ghini Associati progetti in tutto il mondo. Di sostenibilità, salti di scala, e di una irriducibile tensione verso un’italianità matrice di risorse e soluzioni imprevedibili, abbiamo parlato in questa chiacchierata.
I designer italiani - uso la categoria dell’italianità pur nell’evidente genericità - sono legati dall’idea di innovare, di sperimentare. Senza essere antiscientifici privilegiamo il metodo empirico creativo: un tratto comune che fa parte del nostro carattere nazionale e della nostra tradizione. I miei esordi sono in linea con questo modo di essere, l’inclinazione a non accettare lo status quo, ma a sviluppare dei percorsi di innovazione e creatività. La parte movimentista, anche questa molto italiana, penso al Futurismo, aveva la volontà di richiamarsi all’attitudine di saper trovare nuove strade strategie e soluzioni e anche utilizzare il design come media espressivo caricato di messaggio oltre che come prodotto.
Noi abbiamo sicuramente la capacità di individuare il nuovo: si tratta di una sensibilità culturale che ci appartiene perché siamo ricchi di passato e abbiamo sviluppato dei captatori che ci consentono di individuare delle risposte e capire prima dove va l’evoluzione umana/sociale. Se applichiamo questa attitudine al mondo della produzione, notiamo che per ogni periodo c’è una proposizione di novità ed elementi non tutti indispensabili, sperimentali appunto. Dentro quella massa, però, ci sono delle risposte importanti che dobbiamo andare a individuare. Questo è il nostro modo di operare: fare novità anche generando degli scarti. Creando, e poi rendendosi conto che nella creazione c’erano elementi importanti in grado di generare sviluppi mentre per altri non avevano lo spunto di novità sufficiente.
Sono stato formato a questa visione larga, a questa idea che richiamiamo sempre, citando Ernesto Nathan Rogers, dell’ampio spettro “dal cucchiaio alla città”: una predisposizione indispensabile che deriva ancora dal Rinascimento e che ci consente di vedere le cose in senso generale, aperto. Questa visione a-specialistica – come diceva Alessandro Mendini, “siamo architetti orizzontali, non verticali” - offre alla società il vantaggio di innovare in maniera più democratica, tenendo conto di tutti e non di uno in particolare.
Stiamo vivendo una presa di coscienza definitiva di quanto il tema della sostenibilità sia fondamentale. La sostenibilità oggi è necessariamente una strategia ampia: nel 2006 avevo tentato di definirla in un libro, intitolato “Sostenibile ma bello”, che voleva essere una presa di posizione che abbraccia il tema per definirlo e governarlo. Ricca di sfaccettature, la sostenibilità è anche un medicinale che ci dobbiamo sorbire, perché ci siamo resi conto che non possiamo pensare di poter continuare ad andare avanti senza rimettere in discussione l’idea della crescita.
La visione tecnica, latouchiana [da Serge Latouche, teorico della decrescita felice, n.d.r], ci raccomanda di ridurre l’impatto ambientale, il che onestamente è oramai ovvio, partendo dal presupposto che se riduciamo le emissioni la Terra si riequilibra. Credo che il punto sia il come ridurre. Quello che serve sono strategie intelligenti, non superficiali ma effettive, che ci permettano di vivere in un contesto declinante ini modo gradevole, sostenibile non solo per il pianeta ma anche per noi nella vita quotidiana fatta del piacere del vivere.
Assolutamente ottimista. La reazione c’è. In quanto italiani, poi, anche se insisto sulla genericità del termine, saremo in grado di dare delle risposte straordinarie come facciamo da tempo nel design. Credo che la cultura che ci appartiene possa più facilmente esprimere una risposta difficilmente prevedibile.
Il progetto è una commessa basata sull’idea di creare uno spazio abitativo che sia una sintesi di tutti i presupposti legati alla sostenibilità, sempre con l’idea di fondo di creare dei luoghi dove la gente possa vivere bene – perché, a dispetto del fatto che io possa sembrare un calvinista, io sono un’edonista di fondo. Abbiamo sviluppato abitazioni mono e bi-familiari, con un tessuto di prossimità piuttosto ricco, senza verticalizzazioni, privilegiando delle tipologie architettoniche del luogo come le case a doppia falda e creando per ogni abitazione uno spazio serra di 10-20 mq dove inserire un orto, come per la tradizione cittadina degli orti urbani. Abbiamo poi inserito le tecnologie della sostenibilità, incluso l’eolico per una piccola scuola, insieme ad una percentuale di verde molto elevata, il doppio rispetto alla media cittadina. Il Green Village non richiede l’uso dell’auto, che viene lasciata all’esterno del perimetro, per raggiunge la propria abitazione a piedi o con il bike sharing.
La natura va rispettata. Il punto è che invece di forzarla la dobbiamo assecondare, attraverso strategie che non la modifichino: dobbiamo seguirne il flusso. Questo lo possiamo fare se la conosciamo in maniera profonda, se riusciamo ad integrarla. Superando l’idea ormai vecchia di natura come decoro, e ponendola in equilibrio con la parte artificiale.